Gender gap e competitività, ecco perché investire nell’occupazione femminile
Secondo l’ultimo Competitiveness Report, che ha analizzato l’andamento di 193 Paesi tra il 2019 e il 2020, l’Italia ha raggiunto in poco tempo ottimi risultati per competitività, facendo registrare progressi in molti ambiti, tra cui lo sviluppo di nuove infrastrutture e una maggiore libertà di stampa, passando così dal 44° al 30° posto. Tuttavia, quando viene analizzata la questione di genere, il nostro Paese non sembra procedere alla stessa velocità.
Siamo penultimi in Europa per occupazione femminile, ultimi considerando la fascia d’età 25-34 anni, con un dato drammatico: una donna su 5 abbandona il lavoro dopo la nascita di un figlio. Il divario nel tasso di partecipazione al lavoro è di 19 punti rispetto a quello degli uomini e questa forbice non ha fatto che allargarsi con la pandemia. In Italia, ancora oggi, alle donne non viene garantito l’accesso al lavoro, né la possibilità di fare carriera o di occupare posizioni di leadership (appena il 3% delle aziende è guidato da una donna).
Eppure, i dati sono chiari: non solo le aziende che adottano una governance mista sono più competitive, ma più in generale un numero maggiore di donne occupate è un vantaggio per l’intera società, una spinta decisiva alla ripresa economica. Secondo le stime più recenti, si parla di un potenziale compreso tra 50 e 150 miliardi di euro in termini di PIL. Mentre per il Fondo monetario internazionale (Fmi) «avvalersi delle donne nelle posizioni strategiche aumenterebbe l’economia globale del 35%».
Se, da un lato, la pandemia ha cancellato centinaia di migliaia di posti di lavoro occupati da donne, dall’altro, tuttavia, ha reso urgente la discussione sul divario di genere e il bisogno di recuperare un ritardo, oggi inaccettabile, nella sua risoluzione. Quali misure adottare e dove intervenire per incrementare la presenza femminile nel mondo del lavoro e favorire, così, il cambiamento verso una cultura più aperta e inclusiva, in grado di accogliere tutti?
Nel secondo appuntamento di WOW – Women on Wednesday, dal titolo “La competitività nel futuro del lavoro”, PHYD rivolge queste domande direttamente alle donne, mettendo a confronto le visioni sul futuro del lavoro di Cathy La Torre, avvocata e CEO di WildSide-Human First, Marianna Poletti, docente alla Business School del Sole24Ore e alla Bicocca di Milano e founder di Just Knock, e Virginia Stagni, Head of Business Development del Financial Times. A moderare questo incontro la giornalista Elisa Serafini.
Attitudini per il futuro
Prepararsi al futuro, ai balzi in avanti repentini, come alle battute d’arresto e alle crisi, è un imperativo del presente. Il modo migliore per affrontare il domani è dotarsi delle competenze giuste, quelle che Marianna Poletti chiama più propriamente attitudini:
Durante la crisi, le aziende migliori sono state quelle le cui persone sono state capaci di adattarsi al cambiamento, di proporre soluzioni diverse, quelle con capacità di problem solving. Nel futuro del lavoro, le attitudini personali – l’intraprendenza, la motivazione, la creatività, l’empatia, la flessibilità – saranno la chiave dell’occupabilità.
Ma come riuscire a far emergere queste attitudini, ad esempio in un colloquio di lavoro? Secondo Poletti, diventata imprenditrice a soli 25 anni, si deve andare oltre il curriculum, ci sono competenze che si apprendono con il tempo e la pratica e ci sono caratteristiche innate che, per forza di cose, non trovano spazio in un asettico portfolio. Occorre avere un mindset nuovo, percepirsi non tanto come un individuo chiamato a svolgere un compito, quanto piuttosto come portatore/portatrice di valore aggiunto. Il contributo unico che ciascuno di noi sceglie di dare a un’azienda dice molto delle nostre attitudini, della nostra identità.
Tuttavia, “Ci sono ancora moltissime realtà in Italia, soprattutto medie e piccole imprese, incapaci di dare spazio e voce all’unicità”. A dirlo è Cathy La Torre, che per molte aziende svolge attività di formazione in Diversity Management e Diversity & Inclusion:
Si possono cogliere e valorizzare le attitudini di qualcuno, se si prescinde dalla sua identità? La risposta è no: quando una persona entra in un contesto lavorativo in cui non può essere pienamente se stessa, non è nemmeno messa nelle condizioni di dimostrare le proprie capacità nel migliore dei modi.
È impensabile che un’impresa od organizzazione, qualunque sia il suo segmento di mercato, possa aumentare la propria competitività senza che le persone che ne fanno parte abbiano la possibilità e le condizioni per esprimere pienamente la propria unicità.
L’importanza del punto di vista
Quando, durante un focus group rivolto alle donne, venne chiesto loro di descrivere con un’immagine il Financial Times risposero: “un uomo bianco di spalle”, spiegando così perché non fossero interessate a leggerlo. Virginia Stagni racconta il momento in cui il celebre giornale inglese, una storia lunga 135 anni, decise di innovare il proprio modello di business per raggiungere nuove audience, partendo dall’interno, dal proprio capitale umano:
Come puoi raggiungere nuovi target se all’interno chi compone la tua azienda non rappresenta quelle categorie cui intende parlare? Bisogna avere visioni e sensibilità differenti, perché ci permettono di guardare con occhi diversi ciò che abbiamo sempre fatto in un determinato modo.
Assumere un punto di vista nuovo è l’unico modo per comprendere e valorizzare davvero l’unicità sul posto di lavoro, come quando nell’appena nato studio legale di Cathy La Torre arrivò la candidatura di una praticante non vedente. Abbracciare quella unicità, invece che rifiutarla perché impreparati a riguardo, racconta l’avvocata, ha permesso allo studio di dotarsi di nuovi strumenti, non solo tecnologici, nonché di potenziare la realtà lavorativa e con essa le persone che l’animavano.
La diversità è un fatto. L’inclusività è un atto
In un mercato del lavoro che le tecnologie e il digitale rendono sempre più dinamico e fluido, la rivoluzione inizia liberandosi da tutti gli stereotipi e i luoghi comuni. Dice Poletti a proposito: «Dobbiamo fare tabula rasa ed eliminare l’idea di spingere una categoria piuttosto che un’altra. Dobbiamo, invece, essere tutti uguali ai blocchi di partenza».
Perché la diversità non è che l’unicità di ogni individuo presente in azienda, non è solo una questione di genere o di etnia. È un dato di fatto, esiste semplicemente perché esiste l’umanità. L’inclusione, invece, è un’azione deliberata e consapevole, e per Stagni «sta all’impresa e a tutti gli atti che un singolo dipendente può andare a valorizzare e implementare anche nei piccoli gesti, includendo la prospettiva degli altri.»
“Diversity is the one true thing we all have in common”, diceva Winston Churchill, “La diversità è l’unica cosa che tutti noi abbiamo in comune”, su di essa le aziende dovrebbero investire per innovare ed essere davvero competitive. Non esiste una risorsa strategica più preziosa ed efficace dell’unicità.
Per vedere il webinar e approfondire il tema dalla Diversity&Inclusion, è sufficiente registrarsi al sito di PHYD.