Pride Month, la vera inclusività e i pericoli del rainbow washing
Non tutte le diversità sono visibili. L’orientamento affettivo e di genere rientra tra queste e lo si può conoscere solamente se la persona in questione decide di aprirsi agli altri. Nel mondo del lavoro potrebbe sembrare che una diversità non visibile consenta, per così dire, di mantenere una forma di protezione o, quanto meno, dia il vantaggio di poter fare una scelta. La scelta tra fare coming out sul proprio orientamento sessuale, ad esempio, pur sapendo che si potrebbe correre il rischio di subire discriminazioni di vario tipo, anche in termini di carriera. Oppure la scelta di mantenere tutto privato, quindi ignoto per gli altri, per non correre rischi, dovendo però sopportare il malessere che ne può conseguire e le possibili incomprensioni che ne possono nascere. Una scelta che, in entrambi i casi, può essere dolorosa.
È per questo motivo, per superare situazioni di questo tipo, che, in tutto il mondo, alcune aziende stanno cominciando a dotarsi del Diversity, Equity & Inclusion (DE&I) Manager: una figura in grado di riconoscere il valore delle voci diverse presenti in azienda e assicurare l’inclusività e il benessere di ogni dipendente. Una persona deputata a garantire che tutti coloro che lavorano in azienda possano godere delle stesse opportunità, provando a superare ogni pregiudizio dovuto alle diversità, e che possano quindi trovarsi a loro agio in ufficio, nel rapporto con i colleghi, in ogni situazione.
I DE&I Manager portano avanti iniziative e progetti, eventi e formazione, identificano le priorità dell’azienda in materia di diversità, partendo dalle carenze.
«Spesso è una persona del team HR, magari inquadrata come Diversity Manager, e può avere o non avere anche altre mansioni in azienda», spiega Claudio Guffanti, esperto di DE&I e fondatore di Unlimited Views, brand che si occupa di coaching e progettazione di strategie di inclusione per le aziende. «I DE&I Manager portano avanti iniziative e progetti, eventi e formazione, identificano le priorità dell’azienda in materia di diversità, partendo dalle carenze».
In Italia è una figura ancora poco presente. E non è un dettaglio trascurabile: secondo Guffanti l’Italia infatti ha ancora molto margine di crescita rispetto ad altri Paesi. Se, da un lato, è vero che nel mondo del lavoro si parla di questi temi sempre più spesso, dall’altro ancora non c’è un quadro normativo moderno e aggiornato, raramente si vedono azioni concrete che rendano questo tema più facilmente gestibile per le persone appartenenti alla comunità Lgbtq+.
I dati italiani
Secondo il report annuale di Istat e Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone Lgbtq+ (non in unione civile o già in unione), il coming out (l’atto del rivelare agli altri il proprio orientamento sessuale) in ambito lavorativo è diffuso: l’orientamento sessuale dei rispondenti occupati è noto (o era noto per gli ex-occupati) ai colleghi di pari grado nel 78,3% dei casi, seguiti dal datore di lavoro o superiori (64,8%) e dai dipendenti o persone di grado inferiore (55,3%).
ll 41,4% delle persone intervistate, occupate o ex-occupate, dichiara che essere omosessuale o bisessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della propria vita lavorativa in almeno uno dei tre ambiti considerati: carriera e crescita professionale, riconoscimento e apprezzamento, reddito e retribuzione.
Il 61,2% delle persone occupate o ex-occupate riferisce di aver evitato di parlare della vita privata per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale; per la stessa ragione circa una persona su tre ha evitato di frequentare persone dell’ambiente lavorativo nel tempo libero.
Circa otto persone omosessuali o bisessuali intervistate su dieci hanno sperimentato almeno una forma di micro-aggressione in ambito lavorativo legata all’orientamento sessuale. Per “micro-aggressioni” si intendono brevi interscambi ripetuti che inviano messaggi denigratori ad alcuni individui in quanto facenti parte di un gruppo, insulti sottili diretti alle persone, spesso in modo automatico o inconscio. Circa una persona su tre dichiara di aver subito almeno un evento di discriminazione nella ricerca di lavoro.
Il 74,5% delle persone omosessuali o bisessuali intervistate ha evitato di tenersi per mano in pubblico con il partner dello stesso sesso per paura di essere aggredito, minacciato o molestato.
Gli ambienti di lavoro spesso non sono realmente predisposti all’inclusione: un’azienda, per avere il 100% da un dipendente, deve andare a creare un ambiente inclusivo, questo permetterebbe di non dedicare energie a nascondere parte di sé.
Le offese legate all’orientamento sessuale ricevute via web riguardano il 31,3% dei rispondenti. Escludendo episodi avvenuti in ambito lavorativo, l’11,7% afferma di aver subito, negli ultimi tre anni, minacce e l’8,8% aggressioni violente per motivi legati all’orientamento sessuale.
«Se da un lato assistiamo a progressi importanti da parte di alcune aziende, dall’altro molte organizzazioni in Italia sono ferme a piccoli progetti», spiega Guffanti. «Gli ambienti di lavoro – prosegue – spesso non sono realmente predisposti all’inclusione: un’azienda, per avere il 100% da un dipendente, deve andare a creare un ambiente inclusivo, questo permetterebbe di non dedicare energie a nascondere parte di sé».
Quest’ultima è una dimensione spesso dimenticata dalle imprese: la diversità è anche una leva di business, spesso più forte di molti altri investimenti. O almeno può esserlo: persone con background diversi, esperienze di vita diverse, svilupperanno capacità di problem solving e punti di osservazione diversi. Le diversità, insomma, se ben sfruttate, possono favorire creatività, innovazione, intuizioni.
«Alcune aziende pensano di essere estremamente inclusive, ma basta poco per accorgersi che in molti casi chiamano inclusione quella che in realtà è solo non discriminazione, senza neppure conoscerne la differenza di significato», aggiunge Guffanti.
Giugno, mese del Pride
Come ogni anno, giugno – mese dell’orgoglio omosessuale – porterà migliaia di aziende a cambiare il proprio logo sui profili social, adottando temporaneamente i colori dell’arcobaleno. Tuttavia, quelle che mettono in campo iniziative concrete in materia di diversità sono solo una frazione di queste.
Una pratica che prende il nome di rainbow washing, già molto diffusa. Ma negli ultimi anni i consumatori – utenti o i clienti, in base all’azienda – sono molto più attenti e interessati a guardare cosa si nasconde dietro quel marchio.
«Di solito le operazioni di puro marketing portano più effetti negativi che altro, diventano più un danno che un beneficio: se si viene a sapere che dietro quell’arcobaleno non c’è nient’altro l’azienda ne perde, eccome, in termini reputazione», dice Guffanti.
Ma non tutti, all’interno di un ambiente lavorativo, sanno come organizzarsi per sviluppare strategie concrete in merito.
Sarebbe importante pianificare e mettere in pratica strategie di inclusione, considerando la DE&I come una vera leva di business. Gli esempi non mancano: si possono inserire tra gli obiettivi annuali/periodici dell’azienda anche dei goal legati all’inclusione, ad esempio. Obiettivi che in un anno un dipendente può impegnarsi a conseguire, magari per ottenere un premio, per renderla poi un’abitudine di comportamento. Ma non solo.
Negli Stati Uniti si sta provando, specialmente nelle multinazionali, a lavorare sulla rappresentatività: portare in azienda più persone Lgbtq+ e lavorare sulle skill delle persone che sono già in azienda affinché sappiano includere le diversità.