Great Regret, il grande pentimento dopo le dimissioni dal lavoro


Uomo di oltre 50 anni residente al Sud o nelle isole. È l’identikit di chi, in Italia, si è pentito maggiormente della scelta di aver lasciato il lavoro. La difficoltà di ricollocarsi dopo aver abbandonato la propria professione senza un’altra offerta al momento delle dimissioni, ma anche una rivalutazione, in positivo, del vecchio impiego una volta usciti sono le motivazioni alla base del pentimento.

Nell’ultimo anno quasi la metà dei lavoratori italiani ha cambiato lavoro (46%) o sta facendo colloqui (55%), ma il 41% vorrebbe già tornare indietro. Dalla Great Resignation, le grandi dimissioni di massa dal lavoro in un momento di rimbalzo economico dopo la pandemia, nel 2023 si è arrivati al Great Regret, il grande pentimento. È quanto emerge da una ricerca dell’Osservatorio Hr Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano. Abbiamo approfondito questo tema con la direttrice Martina Mauri.

Quasi la metà dei lavoratori intervistati nella ricerca ha cambiato lavoro o sta facendo colloqui, ma il 41% di essi vorrebbe tornare indietro. Perché?
Ciò che possiamo dire dai dati della ricerca è che non c’è una motivazione unica. La vera causa è il malessere profondo al lavoro. Perciò le persone non sono soddisfatte. E il malessere non è legato alla realtà aziendale precedente, ma al sistema. Dopo la pandemia è cambiato il mercato del lavoro e con esso anche i valori. C’è un forte disallineamento tra i desideri e i modelli di leadership.

Le persone volevano cambiare lavoro oppure, in realtà, volevano cambiare vita?
In Italia poche persone hanno cambiato vita. Molti hanno cambiato lavoro nella speranza di avere un’occupazione migliore. Salari, benessere e flessibilità si trovano in cima alle motivazioni alla base di questa scelta. La maggior parte non voleva cambiare tipologia di lavoro o aprire un’attività imprenditoriale. Dunque star bene al lavoro è la motivazione che ha spinto le persone a prendere questa decisione. Insieme alle relazioni sociali, al benessere e all’aspetto finanziario.

Dopo la pandemia è cambiato il mercato del lavoro e con esso anche i valori. C’è un forte disallineamento tra i desideri e i modelli di leadership.

Quali sono i lavoratori che stanno sperimentando maggiormente il Great Regret?
Chi ha cambiato lavoro cercando una maggiore flessibilità di luogo o di orario si è pentito di più. Queste persone, nella nuova realtà lavorativa, non hanno trovato ciò che cercavano. È emerso che quanto era stato detto loro in fase di colloquio non corrispondeva alla realtà. Non abbiamo indagato cosa faranno adesso queste persone, ma è ben presente l’insoddisfazione per la scelta compiuta. Anche perché nel vecchio lavoro erano presenti modalità conosciute. C’è un malessere di fondo.

Sono emerse evidenze significative per quanto riguarda genere, età e provenienza?
Si sono pentiti il 49% degli uomini, contro il 32% delle donne. E ci sono differenze anche in base all’età: il 42% della Generazione Z, il 41% dei Millennial, il 40% della Generazione X e il 76% dei Baby Boomer. Nel Centro Italia la percentuale più bassa: il 33%. Sale al Nord-Ovest, il 36%, poi al Nord-Est, 46%. E, infine, al Sud e nelle isole, dove si tocca il 59%.

Chi ha cambiato lavoro cercando una maggiore flessibilità di luogo o di orario si è pentito di più. Queste persone nella nuova realtà lavorativa non hanno trovato ciò che cercavano.

Perché questo fenomeno riguarda soprattutto gli uomini?
Non abbiamo risposte certe, ma possiamo avanzare una nostra lettura. Gli uomini hanno cambiato lavoro senza averne un altro o per avviare una propria attività imprenditoriale. Ciò si è verificato perché loro hanno una maggiore propensione al rischio rispetto alle donne. E poi si incontrano maggiori difficoltà quando ci si rimette nel mercato del lavoro. Molti ci hanno detto che aprire un’attività imprenditoriale è stato più difficile di quanto pensassero.

E perché le persone con più di cinquant’anni di età?
Queste persone sono un po’ resistenti al cambiamento. È vero che hanno lasciato il lavoro e quindi si sono rimesse in gioco, ma guardano al passato con maggior rimpianto. Per loro l’aspetto sociale è fondamentale. E la loro vecchia organizzazione era un costrutto sociale ben solido.

Nonostante il Great Regret, permangono i motivi alla base della Great Resignation?
Sì, permane il malessere. Ritroviamo la flessibilità, ma c’è anche un tema di benessere sociale, che soprattutto nell’ultimo anno è aumentato di importanza. Si cerca il benessere psicologico. E i carichi di lavoro elevati sono la principale fonte di stress. In alcuni casi si è verificato il burn-out perché l’equilibrio tra la vita e il lavoro non è salutare. Infine rimane la volontà di cambiare lavoro per avere un salario maggiore. Negli Usa, invece, le persone hanno cambiato di più tipo di lavoro. O hanno proprio smesso di lavorare. In Italia il lavoro gode di maggiori tutele.

La flessibilità viene data come policy: per esempio lavorare due giorni alla settimana da casa. Invece servirebbe un cambiamento culturale, manageriale.

Le persone che si sono pentite quali alternative avevano alle dimissioni?
Per soddisfare il proprio bisogno non avevano alternative. Ora si sta diffondendo il Quiet Quitting: fare il minimo indispensabile. Arrivare in ufficio alle 9, non farsi coinvolgere troppo dal lavoro e uscire alle 18. E l’importante è non essere licenziati. Nel lavoro queste persone non trovano soddisfazione ai propri bisogni.

Cosa stanno facendo le aziende per scoraggiare la Great Resignation?
Le aziende devono cambiare i propri modelli manageriali. Invece compiono soluzioni puntuali, come offrire un salario più alto. La flessibilità viene data come policy: per esempio lavorare due giorni alla settimana da casa. Invece servirebbe un cambiamento culturale, manageriale. Dovrebbe essere messa da parte la cultura del presenzialismo, favorendo il lavoro per obiettivi. Ci vorrebbe maggiore flessibilità di orario e di luogo. E bisognerebbe cercare di lavorare molto sulla parte relazionale.

Chi sono i responsabili delle dimissioni?
Il vero responsabile è il modello organizzativo. I vertici dei dipartimenti delle risorse umane non decidono da soli. Il cambiamento deve partire dall’alto, dal top management. I modelli auspicabili sono chiamati agile organization e teal organization. Si tratta di modelli non verticali, dove si lavora per team, in maniera autonoma, per obiettivi e con flessibilità. Inoltre bisogna dare più fiducia ai lavoratori. Il top management, purtroppo, spesso non si fida del dipendente che lavora in remoto. E il controllo non dovrebbe essere sulla persona, ma sul lavoro che viene fatto.

Di |2024-07-15T10:07:10+01:00Luglio 28th, 2023|futuro del lavoro, Human Capital, MF|0 Commenti