Imparare lavorando, i 10mila pionieri del nuovo apprendistato


Hanno 15, 16, 17 anni. Studiano e lavorano. Guadagnano inizialmente 500 euro al mese, che però salgono presto, appena l’azienda impara a conoscerli e ad apprezzarli. All’impresa, d’altra parte, questi dipendenti costano meno di un tirocinante, perché c’è un contributo di 3mila euro per le spese relative al tutor aziendale più una decontribuzione che arriva fino al 40% per chi assume l’apprendista.

Ad aprile 2017 erano 10.612 in Italia i ragazzi con un contratto di apprendistato di primo livello. Sono iscritti a percorsi della formazione e istruzione professionale (IeFP), diventeranno parrucchieri, estetiste, operatori del legno, elettricisti svolgendo una buona metà delle ore di formazione direttamente in azienda, retribuiti per le ore di lavoro svolte. Diecimila ragazzi sono pochissimi rispetto ai 2,4 milioni di Neet che abbiamo in Italia, ma sono i pionieri di un nuovo modello di formazione professionale, che rafforza ulteriormente il nesso fra mondo della scuola e mondo del lavoro. Riavvicinare questi mondi, che finora si sono parlati poco, significa puntare contemporaneamente a due obiettivi: contrastare la dispersione scolastica, portando più ragazzi ad acquisire un titolo di studio, e favorire l’occupabilità dei giovani, promuovendo l’incontro fra domanda e offerta.

Avvicinare scuola e lavoro porta a due obiettivi: contrastare la dispersione scolastica e favorire l’occupabilità dei giovani

I risultati della sperimentazione

È questa la scommessa della sperimentazione del sistema duale in Italia, per il cui lancio un anno fa fu scelto lo slogan “Imparare lavorando? In Italia si può”. Le risorse c’erano: 87 milioni di euro per il 2015 e 27 milioni per il 2016 (questi ultimi devono ancora essere ripartiti fra le Regioni) ma l’esito della sperimentazione non era affatto scontato: mentre in Germania il sistema duale esiste da tempo, da noi il modello è sempre stato quello di affiancare l’esperienza pratica allo studio teorico, non di integrarli. La sperimentazione, partita a settembre 2016, doveva coinvolgere 300 Centri di Formazione Permanente d’Italia e 60mila studenti in due anni. Nel primo anno ha coinvolto 2.655 percorsi di formazione e 21mila studenti, che hanno fatto tutti esperienze di alternanza rafforzata o di impresa simulata, per almeno 400 ore annue. La metà di essi poi, i 10.612, ha firmato un contratto di apprendistato di primo livello con un’azienda e altri 1.120 un contratto di apprendistato di terzo livello.

«I trend di crescita sono tutti positivi, certo i numeri sono ancora di dimensioni modeste, per questo diciamo che siamo moderatamente soddisfatti», spiega il sottosegretario Luigi Bobba, che ha fortemente voluto l’avvio del sistema duale in Italia. La volontà politica ora è quella di «stabilizzare» la sperimentazione, «con un significativo incremento delle risorse», anticipa il sottosegretario Bobba. Quanto? È ancora da vedere, «lo faremo nella prossima legge di bilancio, ma c’è una spinta significativa e condivisa verso il duale che un anno fa non era affatto scontata, anche fra le piccole imprese, come ha dimostrato un recente incontro con Confartigianato». Un tassello importantissimo, perché – benché realtà importanti come Eni, Enel, Allianz e Farmindustria abbiano già stipulato o stiano chiudendo ora accordi con il Ministero del Lavoro per accogliere ragazzi in formazione duale – l’Italia non è fatta solo di big player.

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Dentro le esperienze

Ma cosa serve – oltre alle risorse e alla volontà politica – per trasformare davvero questa sperimentazione in una realtà organica e strutturale? Sono le esperienze concrete a dirlo. Padre Sante Pessot è il direttore del Centro di Formazione Artigianelli di Fermo, nelle Marche. A settembre 2016 il corso triennale di operatore della calzatura è partito in “versione duale”, in collaborazione con Nero Giardini: l’azienda ha dato commesse ai ragazzi del primo anno, per un’esperienza potenziata di impresa formativa. Sei ragazzi del IV anno del corso per tecnico di impianti termoidraulici sono invece in apprendistato. «L’azienda nel duale diventa a pieno titolo soggetto formativo, e non è poco: un’azienda piccola, come è la gran parte delle imprese italiane, non ha tempo per la formazione di un giovane neoassunto, qui invece è possibile», afferma padre Pessot. «Per le piccole aziende il duale è un ottimo strumento per progettare il ricambio generazionale, per gli studenti si sta rivelando un percorso motivazione fortissimo». La criticità? «Quelle con i consulenti del lavoro, che inizialmente non conoscevano in maniera approfondita lo strumento». La pensa così anche Ilaria Poggio, direttore della sede torinese di Piazza dei Mestieri, con percorsi duali attivati per la sala bar e l’acconciatura: «Noi spesso abbiamo fatto anche da consulenti del lavoro e non è detto che tutte le aziende riescano ad avere un tutor preparato, fare formazione è diverso dal fare addestramento. Questa però è un’occasione straordinaria, che finalmente fa emergere una potenzialità innovativa del sistema di istruzione e formazione professionale, che si era un po’ scolarizzato». Inoltre tutti i ragazzi che si sono diplomati con un contratto di apprendistato «hanno ottenuto volti altissimi».

Per le piccole aziende il duale è un ottimo strumento per progettare il ricambio generazionale

Sante Pessot, direttore Centro di formazione Artigianelli di Fermo

Da Bolzano al Molise, una mappa in chiaroscuro

La Lombardia è la regione pivot del nuovo apprendistato, con 2.469 contratti attivati fra gennaio 2016 e aprile 2017: il 23% di tutti i giovani apprendisti d’Italia abita qui. Regioni come il Piemonte e il Veneto si fermano rispettivamente a 253 e a 632 apprendistati, il fanalino di coda è il Molise con soli 7 contratti attivati, mentre la Provincia Autonoma di Bolzano conta da sola 3.104 apprendisti, ma da loro il sistema duale di impronta tedesca è la norma. «La disomogeneità territoriale è un primo tema da risolvere nell’ottica del passaggio dalla sperimentazione alla stabilizzazione», ammette Sandra D’Agostino, ricercatrice dell’Inapp-Istituto Nazionale per l'Analisi delle Politiche Pubbliche (ex Isfol) e parte del gruppo di lavoro sul sistema duale. La disomogeneità «ricalca la mappa delle regioni che storicamente sono più in ritardo sulla formazione professionale. Poi c’è da tener conto della lentezza con cui le innovazioni entrano nel sistema: con la prossima finanziaria vanno individuate azioni di sostegno e stimolo alle Regioni che fino ad ora non sono partite». Le indiscrezioni parlano di un fondo da 10 milioni di euro dedicato proprio allo startup del sistema duale nelle regioni in questo meno all'avanguardia. L’altro obiettivo è quello di «rafforzare la capacità di placement dei centri di formazione, per renderli in grado di supportare le microimprese», continua D’Agostino.

Il modello Lombardia

La preesistenza di un sistema forte di percorsi della formazione e istruzione professionale è percià determinante. Regione Lombardia ad esempio, spiega l’assessore allal’Istruzione, Formazione e Lavoro, Valentina Aprea, «già nel 2015 nella legge regionale n. 30 abbiamo inserito un vincolo per cui almeno il 5% degli allievi iscritti al terzo anno deve essere in apprendistato, con una penalizzione economica per l’ente che non lo attua». Al debutto della sperimentazione nazionale quindi la Lombardia ha messo a disposizione ulteriori risorse, coinvolgendo tutti gli 84 CFP della Regione e lavorando molto con le parti datoriali: «questo è un successo di sistema», afferma l’assessore, che punta a triplicare i numeri degli apprendistati per l’anno 2017/18.

[legacy-picture caption=”L’assessore lombardo Valentina Aprea, il sottosegretario Luigi Bobba e il direttore di Galdus, Diego Montrone” image=”f897def8-c336-4be4-981e-b3f714f32927″ align=””]

Fra le tante realtà lombarde che hanno sperimentato con successo il sistema duale c’è Galdus, che ad oggi conta 132 apprendisti: «diventeranno 200 entro fine anno», spiega Diego Montrone, il presidente. Galdus fa parte di un network che in Lombardia riunisce 44 enti di formazione professionale, per 40mila studenti: qui dentro il 95% dei ragazzi che ha raggiunto la qualifica professionale con il nuovo apprendistato, lavora. L’apprendistato di primo livello per Montrone è «la cerniera tra i temi che riguardano la formazione, i giovani, il lavoro, per questo funziona là dove gli enti di formazione sono accreditati anche a gestire le politiche del lavoro, immaginare che esistano ancora centri di formazione che non si sporcano le mani con il lavoro è fuori dal tempo».

Il peso burocratico è stato molto alleggerito per l’azienda, ma le PMI fanno ancora fatica

Enrico Peretti, direttore di Cnos-Fap

Cinque idee per far crescere il sistema

Ecco allora i suoi suggerimenti nell’ottica della stabilizzazione del sistema duale e della sua crescita. «In alcune regioni la normativa esclude che i centri di formazione possano fare ricerca e selezione del personale, mentre è necessario che gli enti di formazione possano gestire le politiche del lavoro, ad esclusione della somministrazione, perlomeno sul target dei giovani». C’è poi un problema che riguarda il lavoro minorile e notturno: «una legge degli anni Cinquanta, da attualizzare: l’esempio classico è quello del ristorante, dove i ragazzi in stage o tirocinio possono tranquillamente lavorare la sera, mentre chi ha un contratto di apprendista non lo può fare». Terzo spunto, la revisione dei profili professionali. Chi fa il gelato nel suo lavoro quotidiano non vedrà mai un forno, ha ancora senso quindi che per la qualifica professionale debba essere pasticciere e imparare tutto della cottura? Oppure il gommista, che per la scuola deve essere un carrozziere? «La revisione dei profili professionali è urgente e potremmo fare molti apprendistati in segmenti specifici, là dove oggi non c’è un titolo di studio».

Il tutor condiviso

Alcuni di questi spunti sono condivisi anche da don Enrico Peretti, direttore di Cnos-Fap (la federazione dei salesiani che coordina in Italia l’attività di formazione professionale, con circa 20.500 allievi in tutta Italia), a cominciare dalla necessità che gli enti si aprano alla filiera verticale e orizzontale della formazione professionale, dal triennio agli ITS alla formazione continua e a catalogo. Un’idea che Peretti lancia è quella del tutor aziendale condiviso: «Il peso burocratico è stato molto alleggerito per l’azienda, ma le PMI fanno fatica, anche perché il tutor aziendale deve essere formativo, non solo di inserimento al lavoro. Forse si potrebbe pensare a una figura formata da Anpal e condivisa fra più aziende». Vale la pena scommetterci, perché il sistema duale, sperimentato sul campo, offre molte chances al futuro dei giovani: «Siamo partiti con una bella cornice, ma un po’ senza quadro. Invece abbiamo capito che si tratta di una risorsa ampiamente sopra le nostre aspettative».

In copertina, il Laboratorio Talenti di Galdus

Di |2024-07-15T10:04:37+01:00Agosto 3rd, 2017|Formazione, Human Capital, MF|0 Commenti
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