Volete capire davvero l’innovazione? Studiate Marx (e lasciate perdere Zuckerberg)
Qual è la definizione più corretta di innovazione? Quale il significato reale e cosa definisce il concetto di innovazione? Ancora: innovazione e innovazione tecnologica sono (sostanzialmente) sinonimi? E da ultimo: cos’è l’innovazione? Per cercare di rispondere a questi interrogativi, legati a doppio filo a una delle parole d’ordine del nostro tempo, siamo andati in via Solferino a Milano, nell’ufficio di Massimo Sideri, il responsabile del dorso sull’innovazione del Corriere della Sera: il Corriere Innovazione, appunto. Perché proprio da lui? Perché Sideri ogni giorno deve sciogliere un nodo gordiano: come parlare di innovazione al grande pubblico senza scivolare sulla buccia di banana della classica contrapposizione: progressisti versus conservatori?
Sideri, intendiamoci: che rapporto c’è fra innovazione e innovazione tecnologica? Sono una la declinazione dell’altra?
Siamo di fronte a un malinteso. Anzi a un malinteso al quadrato, perché l’innovazione non è sinonimo di tecnologia e tecnologia non è sinonimo di computer. L’innovazione è insita nella storia dell’uomo. Il fuoco è una tecnologia che ha rivoluzionato il mondo forse ancor più di internet. La narrazione sull’innovazione non va confinata in nicchie, quasi fossero delle tribù della tecnologia. Anche perché questa è la strada più diretta per creare ansie alle persone che ti leggono. La mancata comprensione di qualsiasi fenomeno, crea timore, paure. E questo vale anche per l’innovazione. Occorrerebbe fare quello che negli anni 70 e 80 Piero Angela ha fatto per la scienza. Non arrivo a dire che serve una pedagogia dell’innovazione, ma certo occorre spiegare in maniera chiara e trasparente le trasformazioni del contemporaneo senza rifugiarsi in “isole” che parlano un linguaggio incomprensibile al resto del mondo.
Lei per mestiere ci sa fare con le parole: ci dia una definizione di innovazione?
Ottima domanda, che resterà senza risposta. Se la sono fatta in tanti, ma nessuno ne è venuto a capo in modo soddisfacente. L’unica strada è quella della tautologia: cioè spiegare l’innovazione, attraverso il concetto stesso di “innovare”. E quindi non se ne esce. Provo a cavarmela con Nicolas Negroponte, che a un certo punto ha detto: “l’innovazione è quella cosa che nessun cittadino vuole dallo Stato, nessun dipendente dalla propria azienda e nessuna famiglia dai propri figli”. Il senso è grosso modo questo: l’innovazione è cambiamento. Tendenzialmente però l’uomo è rassicurato dallo status quo. L’innovazione invece comporta conseguenze positive e negative. La differenza lo fa il saldo fra le due grandezze. E questo mi porta a dire che l’innovazione va governata.
L’innovazione non è sinonimo di tecnologia e tecnologia non è sinonimo di computer.
A lei più che governarla, tocca raccontarla. Come bilanciare gli aspetti ansiogeni con quelli più rassicuranti di chi guarda al futuro con ottimismo?
Io ho una posizione ragionevolmente speranzosa. Non sono un amante del mito del buon selvaggio di Rousseau. Il punto di arrivo secondo me è positivo. John Steinbeck nel suo “Furore” racconta l’America dell’esplosione della grande industria e dell’esodo delle famiglie verso le grandi città. Nessuno dubita che negli anni 60 e 70 gli americani in linea generale stessero meglio rispetto all’epoca della grande depressione in cui è ambientato il romanzo. Ma certo quella trasformazione sociale ha comportato la perdita di vecchi posti di lavoro e la creazione di nuove professioni. Io credo che chi racconta questi processi debba avere un approccio anche educativo in modo da individuare quali siano i binari formativi su cui mettersi per cogliere le opportunità che si creano e non rimanere indietro.
Qual è il luogo comune più duro a morire legato all’innovazione?
Quello di pensare che le persone sono interessate allo smartphone o alla tecnologia in quanto tali. Non è così. Sono molto più interessati alle ricadute sociali dello smartphone. Come funziona il microchip non importa quasi a nessuno, nel momento in cui spieghi alle persone come quel device cambia la loro vita, allora sì che susciti interesse. E questo vale per tutte le innovazioni.
Quali sono gli autori che non possono mancare nella libreria di chi non vuol perdere il treno dell’innovazione?
Keynes, Rousseau, Marx, Schumpeter. Tutti autori che hanno saputo leggere e interpretare i momenti di cambiamento. Se invece vogliamo restare all’oggi, suggerisco il professor Luciano Floridi che insegna ad Oxford. È un filosofo che però dirige il Digital Ethics Lab dell’università inglese. Da tener presente.
Noi italiani spesso non siamo stati in grado di valorizzare al meglio le nostre innovazioni.
Non ha citato Mark Elliot Zuckerberg, Larry Page, Sergey Brin, Bill Gates, Elon Musk…
Guardi se devo pescare nel mazzo dei grandi nomi della Silicon Valley dico Jeff Bezos, perché dopo averlo conosciuto e intervistato posso certamente dire che è un uomo di un’intelligenza straordinaria. Però non ho certo il mito di Amazon, come non ce l’ho degli imprenditori della Silicon Valley. Sinceramente sono molto più attratto dagli scienziati che stanno alla base di alcuni percorsi imprenditoriali di innegabile successo. Magari italiani.
E qui veniamo alla sindrome di Eustachio, a cui lei ha dedicato un libro, edito da Bompiani. Di che cosa si tratta?
Il professor Bartolomeo Eustachi, conosciuto come Eustachio, è stato un grande anatomista italiano del 1.500 e professore dell’università di Padova. Uno scienziato di primissimo livello, quasi completamente sconosciuto pur essendo il padre dell’anatomia sottile, se non fosse per le trombe di Eustachio delle nostre orecchie. Il titolo del libro, la sindrome di Eustachio appunto, si riferisce a una certa sordità che gli italiani manifestano rispetto alla propria cultura e scienza. La nostra storia dice che siamo molto più innovativi di quanto ci rappresentiamo. Gli americani al contrario sono eccezionali nella fase di commercializzazione, forse ancor più che in quella della innovazione.