Idee per cambiare la scuola? Chiedetele a questi dieci maestri di innovazione
Sono 8,4 i milioni di studenti in Italia, e per loro, già prima dell’emergenza sanitaria dettata dal Coronavirus, si è capito che il modello di scuola classico, fatto di libri di testo, didattica frontale e interrogazioni, non bastava più. Il Coronavirus ha solo accelerato un passaggio inevitabile all’interno del “modello scuola italiano”. Uscire dalla comfort zone, mettersi in discussione come docenti e sperimentare un modello di scuola diverso, non è un percorso facile. Ma oggi è più che mai necessario. Dieci insegnanti italiani provano ad “uscire dalle regole” e dimostrano che una scuola nuova si può fare.
Rachele Furfaro, Napoli. «Smettiamola di pensare che la scuola debba continuare ad essere quella che conoscevamo: uno spazio chiuso, le aule zeppe di banchi e gli alunni stipati lì per 5 o 6 ore al giorno. Non esiste la scuola che insegna ma quella che mette in moto processi di apprendimento. Abbiamo bisogno di una scuola che parli con il territorio: l’aula deve essere solo il luogo dove ricondurre le esperienze che si fanno fuori». Non ha dubbi Rachele Furfaro, presidente di Foqus – Fondazione Quartieri Spagnoli di Napoli e dirigente del network di scuole Dalla Parte dei Bambini. «È possibile fare scuola ovunque e in qualunque momento: per strada, nei boschi, nei parchi, dall’alba al tramonto, in tempi e in luoghi diversi da quelli a cui la scuola tradizionale ci ha abituati. Trasformare la scuola tradizionale in una scuola diffusa nella città».
Oggi il network Dalla Parte Dei Bambini comprende nidi, scuole dell’infanzia, scuole primarie, scuole di secondo grado e scuole internazionali. Gli oltre 1.200 alunni che frequentano uno dei quattro plessi del network sono divisi in classi di massimo 16 persone, le lezioni vanno avanti dalle 8 del mattino fino alle 16 e c’è la possibilità di continuare con i laboratori fino alle 17,30 del pomeriggio. «La città intera», spiega Furfaro, «è il nostro ambiente educativo. Gli studenti, indipendentemente dall’età, escono tutti i giorni dalle aule e per loro non esistono i libri di testo. Per spiegare la chimica, ad esempio, li portiamo dal panetterie, così non si annoiano davanti alle formule ma imparano osservando i processi della lievitazione del pane. Un’altra tappa fissa è la bottega del maestro Talarico, una famiglia che da 5 generazioni crea ombrelli artigianali, lì i ragazzi studiano la geometria e la tecnica». E poi ancora le lezioni nei musei e nelle biblioteche. Le passeggiate alle 6 del mattino per spiegare l’alba e le notti sulla spiaggia per raccontare attraverso il mito di Callisto, una vergine ninfa dei boschi di cui Zeus si innamorò, com’è nata la costellazione dell’Orsa Maggiore. «Così», spiega Furfaro, «il bambino costruisce dei propri luoghi: fisici, mentali, emotivi e relazionali che, fondendosi nella dimensione del gioco, favoriscono la crescita e la conoscenza».
Alfonso d’Ambrosio, Vo' Euganeo. Docente di matematica e fisica, appassionato di pratiche educative innovative – già “Docente Innovatore” al Global Junior Challenge 2015 – D’Ambrosio guida l’istituto comprensivo di Lozzo Atesino, sui Colli Euganei: nove plessi e 33 classi dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di primo grado per tre comuni, fra cui appunto Vo’ Euganeo. Quella di Vo’ è stata la prima scuola d’Italia a chiudere per l’emergenza Coronavirus. L’atrio della scuola primaria di Vo’ oggi accoglie nove aule tematiche, una per ogni plesso, dal coding al debate: «Vogliamo ripartire da qui per restituire ai bambini un’altra immagine della scuola, diversa da quella che hanno avuto in questi mesi», dice D’Ambrosio. «Ora ci sono nuove sedute morbide per l’Agorà della scuola senza zaino e piante per distanziare in maniera green».
[legacy-picture caption=”Alfonso d Ambrosio, dirigente dell’Istituto comprensivo di Lozzo Atesino” image=”19f24cc6-a795-411b-b267-f64c69f30060″ align=””]La scuola dell’infanzia di Cinto Euganeo ha un’aula a cielo aperto più funzionale, qui già prima qui si facevano nascere i pulcini, si producevano 30 litri di olio e in mensa si mangiavano i prodotti dell’orto scolastico. Ora nell'istituto sono arrivati nuovi banchi, singoli e coloratissimi, pannelli fonoassorbenti per creare aule in più nei grandi corridoi inutilizzati (nessuna classe qui verrà sdoppiata), tablet, kit di robotica, tre grandi monitor multi-touch e anche un centinaio delle celebri sedie con le ruote e la ribaltina, tutto già consegnato e montato. «La nostra idea», dice, «è che tutta la scuola diventi un ambiente di apprendimento stimolante e confortevole».
Amanda Ferrario, Busto Arsizio. «La scuola in presenza non può essere sostituita da una scuola in digitale, ma è giusto dare ai ragazzi anche queste competenze, evidentemente sempre più necessarie. E poi era l’unico modo per tenere unito il gruppo classe e non ridurre il monte orario». Spiega così la sua scelta Amanda Ferrario, dirigente scolastica del Tosi di Busto Arsizio chiamata anche dal ministero dell’Istruzione nella task force di esperti per la gestione dell’emergenza Covid-19. Il Tosi, istituto tecnico economico, è una scuola “prima della classe”, l’unica italiana fra le 25 migliori del mondo selezionate nel Word School Forum. Ha 300 docenti 2.050 studenti nel diurno e 500 al serale, dal lunedì al venerdì apre alle 7 del mattino e chiude alle 23. Internazionalizzazione e alternanza scuola lavoro sono i suoi punti di forza. In questo primo quadrimestre non ci saranno voti, ma livelli di competenza raggiunti o meno, con gli studenti che resteranno sul processo finché la competenza non sarà raggiunta. E i più brillanti faranno percorsi extra insieme a ragazzi di altre classi e di altre scuole, online. Un esempio? La fisica con gli studenti del Mit.
Alfina Bertè, Acireale. L’Istituto comprensivo Giovanni XXIII di Acireale, diviso in 7 plessi, accoglie 700 studenti tra la scuola dell’infanzia, la primaria e la secondaria di primo grado. Oggi è una fucina di sperimentazione dove gli spazi e i tempi della didattica si sono trasformati. La preside ha ridotto l’orario delle singole lezioni per “restituire” quel tempo nel pomeriggio dove i ragazzi scelgono tra alcuni percorsi e laboratori proposti anche secondo i loro interessi. Corsi di informatica, lingua inglese, cucito, arte, giornalismo, cinemaker. «I ragazzi», dice Bertè, «imparano tramite l’esperienza del fare. Sostituire, almeno per una parte delle ore di lezione, le aule classiche con “Aule Laboratorio Disciplinari” abbinando a queste un uso flessibile del tempo e dello spazio è stata una scelta coraggiosa ma vincente.
[legacy-picture caption=”Alfina Bertè, dirigente scolastica dell Istituto comprensivo Giovanni XXIII di Acireale” image=”4faa2446-0ade-414c-b644-26956c868815″ align=””]Le nostre classi sono diventate delle agorà per i momenti collettivi a cui si alternano momenti di lavoro che noi chiamiamo “isole di apprendimento differenziato” dove gli alunni sono divisi in piccoli gruppi. Siamo diventati una “scuola all’aperto”. Abbiamo iniziato a sfruttare a pieno gli spazi dei nostri plessi e realizzato con i bambini degli orti didattici. Inoltre grazie ad un accordo con la città metropolitana di Catania, siamo riusciti ad avere a disposizione una parte del parco suburbano “Il Bosco di Acii” con il supporto degli scout dell’Agesci, facciamo lezione lì. Vogliamo trovare connessioni tra azioni, progetti, risorse finanziarie e professionali e questo può avvenire solo con le relazioni che si instaurano con tutti gli altri attori della città: la libertà d’insegnamento oggi è legata al territorio».
Massimo Belardinelli, Città di Castello. «La scuola per funzionare ha bisogno di una didattica di prossimità e un’architettura della responsabilità. Ma soprattutto», spiega Massimo Belardinelli, da quattordici anni dirigente del Circolo didattico San Filippo, a Città di Castello, «deve essere una scommessa costante sulla relazione». Belardinelli dirige un Circolo didattico che ospita alunni dai 3 agli 11 anni in dodici plessi, di cui due in zona di montagna. Attraverso un lavoro di squadra la scuola ha innovato gli ambienti di apprendimento partendo da una riprogettazione delle architetture diventando un caso di studio nazionale e internazionale.
«Dal 2015», spiega Belardinelli, «lavoriamo per creare paesaggi didattici non imposti, ma responsabilizzanti e inclusivi. In questo senso abbiamo seguito — e continuiamo a farlo — alcune direttrici. La prima è l’investimento culturale sulle architetture per l’apprendimento e l’inclusione. La seconda è rappresentata dall’utilizzo delle tecnologie dell’informazione della comunicazione nella didattica. La terza direttrice è quella dei processi di intercultura, inclusione ed integrazione». Anche con l’emergenza Coronavirus «noi», continua Belardinelli, «anziché imporre soluzioni drastiche o farci calare addosso decisioni dall’alto abbiamo suddiviso nuovamente gli spazi, sia interni sia esterni, con piani molto precisi: questo significa che i bambini non faranno le stesse cose nel medesimo momento e la molteplicità di proposte fornirà agli adulti l’occasione per stare in ascolto, per sostenere disparità e differenze. Ciò detto, la cura di quegli spazi sarà sempre affidata ai bambini che, ora, devono imparare qualcosa in più: gestire il rischio. Noi non abbiamo fatto “didattica a distanza”, ma “didattica di prossimità”: abbiamo portato la scuola a casa, insistendo sulla relazione e non solo sui contenuti».
Giampiero Monaca, Serravalle d'Asti. Due i pilastri: esperienza ed empatia. Sono queste le basi di “Bimbi svegli”, il metodo sperimentale d’insegnamento all’aperto, inventato dal maestro elementare Giampiero Monaca, ex capo scout Agesci e attivista del Wwf. «I bambini si emozionano con terra, rametti e insetti, oggi come ieri», spiega mentre racconta il progetto che ha messo in piedi nelle due classi della scuola elementare di Serravalle d’Asti, a 70 chilometri da Torino. «Siamo in diciassette, prima lavoriamo in gruppo in classe», continua Monaca, «poi usciamo nel bosco a osservare la natura o semplicemente a leggere. E magari capita di veder passare un fagiano, che ci si accorga di una coccinella o che si incontri un ruscello. Ospitiamo anche le caprette del vicino che brucano l’erba e ci tengono pulito il prato». E così gli stimoli della natura aiutano a crescere e la curiosità che arriva da fuori si approfondisce poi sulle pagine dei libri o dialogando.
[legacy-picture caption=”Giampiero Monaca, maestro elementare scuola di Serravalle d Asti ” image=”dca44711-0893-4e20-9000-7a9bd04efc7c” align=””]Una scuola senza compiti e senza zaino. Senza cattedra perché «ci si mette in cerchio, si lavora in gruppo». E per chi desidera anche senza scarpe. Una scuola che è anche diventata una palestra di integrazione, con i richiedenti asilo del vicino Cas, provenienti da Mali, Nigeria e Gambia «che hanno collaborato con i bambini nei lavori di manutenzione dei locali scolastici. Ci si parlava in inglese, profughi e bimbi, fianco a fianco».
Filomena Massaro, Bologna. Dirigente dell’istituto comprensivo 12 di Bologna: due scuole dell’infanzia, due scuole primarie e una secondaria, per un totale di 1.350 alunni, che servono il quartiere Savena del capoluogo emiliano. È lei la portavoce di una rete che a quattro anni dalla sua nascita oggi conta 35 scuole distribuite in sei regioni. Il modello, come spiega la professoressa «costruito dal basso grazie all’interlocuzione fra un gruppo di genitori e un gruppo di insegnanti di cui facevo e faccio parte nasce proprio nelle due scuole dell’infanzia dell’istituto comprensivo 12 ed oggi sta attirando molto interesse perché riesce a combinare un approccio “naturalistico” alla didattica — grazie alla possibilità di svolgere almeno un terzo delle ore curricolari all’esterno dell’aula — con una maggiore agilità a conformarsi alle normative di distanziamento sociale e di protezione sanitaria. Ci stiamo attrezzando affinché a quota di lezioni al di fuori della struttura scolastica cresca oltre al “canonico” 33%». Ma cosa significa concretamente portare la scuola all’aria aperta? «In sostanza le ore che si passano all’aperto sono ore di scuola vera e propria, che utilizziamo in un’ottica multidisciplinare e per la gestione delle quali viene formato anche il nostro corpo docente». Un esempio? «Per chiarire: non è che andando all’aperto si fa educazione ambientale, o solo educazione ambientale, ma si fanno storia, italiano, matematica, scienze e via dicendo.
Ora occorre che i docenti comprendano che lo spazio per l’apprendimento non coincide con quello codificato dei banchi di scuola e delle sedie su cui si devono sedere i bambini». E se una determinata scuola non può fruire di uno spazio all’aperto a portata di mano? «Bisogna andarselo a cercare. E se si vuole lo si trova».
Erik Gadotti, Trento. «Prima l’offerta era un percorso tradizionale di istruzione e formazione professionale nel settore delle arti grafiche. Dal 2007 in poi l’istituto Pavoniano Artigianelli di Trento è divenuto un vero e proprio ecosistema complesso con al centro le aziende. Proponiamo un percorso per conseguire qualifica professionale, diploma e diploma di Stato nel settore delle arti grafiche, oltre a un percorso di alta formazione professionale», spiega il dirigente Erik Gadotti. Nella struttura sono presenti laboratori per svolgere progetti di innovazione di prodotto e di processo per le realtà aziendali partner «che vanno da imprese locali a importanti multinazionali in differenti settori», chiarisce Gadotti. «In questi laboratori operano gruppi trasversali per età e formazione, composti da ragazzi di diversi anni della scuola superiore, ragazzi portatori di neurodiversità, studenti universitari di facoltà diverse e alcuni ricercatori». È il caso della Bertolini Imballaggi con cui «abbiamo un progetto di ricerca per lo sviluppo di packaging innovativo basato su intelligenza artificiale. Un tipo di attività che un’azienda da sola non potrebbe fare non avendo il tempo e una scuola neanche non avendo il know how. Insieme invece è possibile».
[legacy-picture caption=”Erik Gadotti, dirigente dell istituto Pavoniano Artigianelli ” image=”054e822a-30f6-4c9d-92dc-e854cdd6983a” align=””]Lavorando in mezzo ai ragazzi le imprese diventano luoghi formativi e crescono le risorse di cui hanno bisogno. «All’interno della struttura c’è Contamination Lab Trento, uno spazio fisico e digitale di interazione e problem solving promosso dall’università di Trento per favorire lo sviluppo di imprenditorialità», aggiunge il dirigente, «e supportiamo lo sviluppo di startup ospitandole nei primi due anni e aiutandole a incrementare il loro business attraverso il coinvolgimento nei progetti attivati al nostro interno». In questo modo, la scuola non è autoreferenziale, ma si contamina in modo profondo con il tessuto produttivo. A subire trasformazioni è anche la struttura fisica della scuola che si è trasformata in un open space per favorire i processi di interazione e contaminazione.
Angelo Lucio Rossi, Milano. Il preside “illuminato" dell’Istituto comprensivo “Alda Merini”, municipio 8 di Milano, non ha dubbi: «La scuola», dice, «deve essere intesa sempre come costituzionalmente incinta. Deve generare di continuo, altrimenti che scuola è?». Rossi è un dirigente che ha aperto il suo istituto e lo ha messo a disposizione dell’intero quartiere: «Lavoriamo per realizzare una scuola aperta, non solo metaforicamente. Ma proprio aperta della 8 del mattino fino a mezzanotte. E questo è possibile solo se stringiamo patti territoriali. Quindi le associazioni, le parrocchie, le aziende, condividono con noi la stessa visione educativa e ci aiutano a realizzarla. Gli “spazi della scuola” diventano “gli spazi di tutti i cittadini”. Quello della scuola aperta è un tentativo strano, ma bellissimo, di restituire la scuola al territorio, perché la scuola non è mia, “non l’ho comprata”». All’Alda Merini le progettualità curricolari ed extracurricolari si intrecciano. «Abbiamo preso accordi con Fondazione Milan che ha ristrutturato per la scuola le aree esterne e le palestre. Fondazione Laurens invece, con la polisportiva Garignano del territorio e la parrocchia del quartiere Santa Cecilia, ha preso in carico gli alunni più fragili e li accompagna nelle attività sportive sia nelle ore di lezione sia nei progetti pomeridiani.
La gestione degli spazi della scuola viene affidata a soggetti terzi che sviluppano attività aperte alla cittadinanza», racconta Rossi. «È successo con la musica ad esempio: da 5 ragazzi volontari è nata l’associazione “Palestra di Musica Popolare” che oggi vanta 40 musicisti. La scuola mette a disposizione spazi e strumenti e loro organizzano corsi di musica pomeridiani. Da questa iniziativa è nata anche un’altra associazione “L’orchestra 8 note”. Altro aspetto fondamentale è “lavoro con la terra”, cosa di cui siamo particolarmente fieri. L’iniziativa è nata dall’accordo preso con l’azienda privata Natura Sì. Grazie al loro supporto abbiamo realizzato orti in ognuno dei nostri 4 plessi. I ragazzi delle varie classi li coltivano tre volte alla settimana, insieme agli anziani volontari del quartiere e a un tecnico messo a disposizione dell’azienda».
Milena Piscozzo, Milano. Dirigente dell’Istituto comprensivo Riccardo Massa, periferia nord-ovest di Milano, nella zona iniziale del Gallaratese, 1400 studenti. Dal 2001 riunisce scuola primaria e secondaria e ha molte sezioni Montessori. «La scuola», spiega Piscozzo, «non deve essere solo una solida preparazione per la vita futura, ma aprire un mondo di esperienze significative e di esplorazioni che coinvolgano la mente e il corpo». Uno dei plessi, il “Riccardo Massa”, per molto tempo è stato l’unica scuola montessoriana pubblica di Milano e provincia. «Dopo una prima sperimentazione alla scuola primaria», continua Piscozzo, «abbiamo avviato una sperimentazione interna alla scuola anche per la scuola secondaria di primo grado. La risposta è stata molto positiva, al punto da spingerci a chiedere la sperimentazione assistita al ministero.
[legacy-picture caption=”Milena Piscozzo, dirigente dell Istituto comprensivo Riccardo Massa” image=”a267cb41-78be-4c3f-91ee-f888c91b2a6b” align=””]Abbiamo creato una rete di scuole – quattro scuole della città di Milano, con capofila la mia – e ci è stata concessa la sperimentazione strutturale. Questo ha creato un circolo virtuoso di pratiche educative attive, innescando molti processi all’interno della nostra struttura». Con l’emergenza Coronavirus l’istituto ha previsto che venga effettuata la didattica in presenza non solo nelle aule classiche, «abbiamo acquistato», dice la dirigente, «dei kit per creare delle aule esterne. Due aule esterne per ogni istituto, in modo che fino a ottobre si potrà usare anche il giardino, a rotazione. Si può così mantenere una forma di attivazione dello studente all’esterno. Questo perché, a fronte di prescrizioni molto rigide, oggi servono dei momenti in cui gli studenti possano approcciarsi al momento educativo in spazi che non siano l’aula scolastica».