Finalmente la prospettiva intersezionale si fa largo nel diritto europeo
Nel 1976, cinque donne afroamericane fecero causa alla General Motors. Erano ex dipendenti che denunciavano di essere state discriminate, in quanto “donne nere”, dalla policy aziendale di licenziamento basata sul criterio “ultimo assunto-primo licenziato”. I licenziamenti erano stati decisi in base all’anzianità, ma dal momento che prima del 1964 l’azienda non aveva mai assunto donne afroamericane, tutte le donne afroamericane inserite dopo il 1970 persero il lavoro.
La class action venne persa dalle querelanti. La motivazione fu che non c’erano le basi per sostenere l’esistenza di una discriminazione di genere poiché l’azienda aveva assunto donne ben prima dell’approvazione del “Civil Rights Act”, ovvero la legge federale americana del 1964 che dichiarò illegale la segregazione razziale nelle scuole, sul posto di lavoro e nelle strutture pubbliche. Secondo la Corte, non erano presenti discriminazioni di genere, dato che le donne bianche lavoravano, né discriminazioni sulla base del colore della pelle, siccome anche gli uomini neri avevano un impiego. Ma il fatto che prima del 1964 venissero assunte solo donne bianche non venne preso in considerazione.
Bisognerà aspettare più di vent’anni per arrivare alla consapevolezza, anche in ambito giuridico, che una persona non può essere definita in base a una sola dimensione, ma esiste una moltitudine di fattori simultanei che ne formano l’identità, come il sesso, l’età, il genere, la religione, la nazionalità. Questi elementi si intersecano e sovrappongono all’interno di un complesso sistema di interdipendenze.
In ogni individuo, quindi, convivono più dimensioni che, combinandosi tra loro e in interazione con il contesto, sono in grado di svantaggiare o avvantaggiare una persona. Il tutto in una prospettiva intersezionale.
La prospettiva intersezionale è stata introdotta nel 1989 dalla giurista e attivista statunitense Kimberlé Williams Crenshaw per rendere noti i numerosi e simultanei sistemi di oppressione in cui erano immerse le donne afroamericane all’epoca. Da qui Crenhaw propose «un’analogia con il traffico di un incrocio, che viene e va in tutte e quattro le direzioni. Così, la discriminazione può scorrere nell’una e nell’altra direzione. E se un incidente accade in corrispondenza di un incrocio, può essere stato causato dalle macchine che viaggiavano in una qualsiasi delle direzioni e, qualche volta, da tutte», si legge nel suo articolo “Demarginalizing the Intersection of Race and Sex”.
«Una delle critiche mosse a Crenshaw è che, pure avendo coniato il termine intersezionalità, in realtà un’analisi “implicitamente intersezionale” era già esistente negli Stati Uniti e in altri Paesi», spiega la professoressa Barbara Giovanna Bello, docente universitaria e autrice del libro “Intersezionalità. Teorie e pratiche tra diritto e società” (Franco Angeli, 2020).
Le basi del dibattito sono individuabili prima della terza ondata di femminismo. Già negli anni Settanta, infatti, in Italia, «si consolida l’analisi delle “differenze tra donne” in ragione, ad esempio, dello status socioeconomico, dell’età, dell’orientamento sessuale».
Negli Stati Uniti, una parte importante di questo percorso è stato svolto dal collettivo di femministe lesbiche nere Combahee River Collective che, nel 1977, sottolineava la necessità di considerare nel complesso – e non singolarmente – le oppressioni causate dall’etnia, dalla classe e dal sesso. «Abbiamo spesso difficoltà a separare l’etnia dalla classe e dall’oppressione sessuale, perché nella nostra vita sono più spesso vissuti contemporaneamente», dicevano.
In questi 46 anni, il discorso si è evoluto, diffondendosi al di là degli ambienti accademici e dei movimenti prettamente femministi, e l’intersezionalità è diventata una prospettiva sempre più diffusa per affrontare temi come l’inclusione, l’identità e la parità di diritti.
Nominare le cose aiuta a farle esistere e a comprenderle, «aver dato un nome a un fenomeno esistente, caratterizzato dalla complessità delle relazioni sociali e dei molteplici modi in cui le forme di subordinazione possono verificarsi, ha reso possibile la riconoscibilità del fenomeno e ha fornito una lente per analizzarlo in modo esplicito».
Questo approccio può giocare un ruolo fondamentale nelle politiche antidiscriminatorie, facendo luce su forme di discriminazione che fino a oggi sono passate in secondo piano nel dibattito pubblico.
Gli effetti positivi della prospettiva intersezionale sono evidenti in modo concreto sul piano giuridico perché «parlare esplicitamente di discriminazioni intersezionali offre la possibilità alle persone che le sperimentano di riconoscerle e a legislatori e giudici di accordare tutela a situazioni che, altrimenti, non sarebbero giuridicamente rilevanti», dice Bello. Il diritto, quindi, può diventare uno strumento efficace per far fronte a queste discriminazioni e invertire la rotta. «L’invito di Crenshaw è proprio quello di ragionare secondo una logica che aiuti a superare i “compartimenti stagni”».
Qualcosa sul piano giuridico sta cambiando. «Nell’Unione Europea, si sta diffondendo un crescente interesse ad adottare uno sguardo diverso rispetto al passato», dice Bello. Un esempio è la recentissima direttiva finalizzata a raggiungere la parità di retribuzione di uomini e donne, che introduce una prima definizione di discriminazione intersezionale. «Anche in Italia la cultura giuridica inizia a essere sensibile a un ragionamento che tiene conto dell’intersezionalità, grazie sia alla spinta del diritto dell’Unione Europea sia alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità».
In una società in cui le possibilità non sono uguali per tutti a causa di caratteristiche non controllabili, analizzare la realtà considerando che in ogni soggetto convivono differenti dimensioni interconnesse rappresenta il primo passo per costruire politiche sociali più inclusive.