Terzo settore, ma primo in occupazione
Più di 2,7 milioni di italiani, il 107% in più rispetto al 2008, hanno un’occupazione part-time anche se vorrebbero lavorare (e quindi guadagnare) di più. E 1,9 milioni sono donne. È la grande trasformazione del mercato del lavoro italiano nei dieci anni dopo la crisi, fotografata nel Rapporto annuale 2019 dell’Istat. Per altro solo lo scorso anno gli occupati hanno superato il livello raggiunto prima della grande recessione, toccando quota 23,2 milioni. Nel frattempo però è cambiata radicalmente la composizione del mercato.
«La ripresa dell’occupazione è riuscita però solo parzialmente a ridurre le vulnerabilità e i divari che si erano acuiti durante la fase recessiva», sottolinea poi l’istituto di statistica che aggiunge, «anche l’input di lavoro complessivo, misurato dal totale delle ore lavorate, resta ancora ampiamente al di sotto del livello pre-crisi».
[legacy-picture caption=”” image=”d8b20299-7842-4ff7-95ae-b76341b8dcdf” align=””]In questo contesto difficile del lavoro italiano c’è però una mosca bianca: il non profit. Stando ai dati del Censimento permanente delle istituzioni non profit infatti le istituzioni non profit attive in Italia impiegano, alla data del 31 dicembre 2016, 812.706 dipendenti. Una crescita dei dipendenti del 3,1% rispetto al 2015.
[legacy-picture caption=”” image=”17c8efe6-cce4-43f3-b602-1342b9ca50f6″ align=””]Tutto un altro passo.
La performance si conferma anche all’incidenza delle istituzioni non profit rispetto al complesso delle imprese dell’industria e dei servizi: dal 5,8% del 2001 al 7,8% del 2016 per le istituzioni e dal 4,8% del 2001 al 6,9% del 2016 per gli addetti. Secondo uno studio di Italia non profit poi il mercato dei beni e dei servizi acquistati dalle non profit vale oltre 21 miliardi, l’1,3% del Pil Nazionale. Insomma un mercato competitivo e in costante crescita nonostante i venti di crisi che accompagnano ormai endemicamente l'economia italiana.
Ma quali sono le figure professionali più ricercate dal Terzo settore?
«In controtendenza rispetto all’andamento del mercato del lavoro, i profili professionali che operano nel non profit sono molto richiesti. Con la crisi infatti è cresciuto il disagio sociale, aumentata proporzionalmente la richiesta di progetti sociali adeguati e di figure che sappiano idearli, realizzarli e finanziarli». A parlare è Marco Crescenzi, fondatore e presidente di ASVI Social Change, la Scuola di Management e Innovazione sociale con sede a Roma e Londra, che dal 1997 forma professionisti per il settore. «Per lavorare nel non profit c’è bisogno di un sogno, di una grande voglia di cambiare il mondo, di fare la differenza, di sfidare un sistema, e non solo di tapparne le falle. Ma anche e soprattutto di competenze sempre più professionali e tarate su standard internazionali».
Le figure professionali più ricercate dal non profit secondo Crescenzi «sono molte e hanno tutte un ruolo chiave nelle organizzazioni. Il Fundraising Manager è tra queste: supervisiona, gestisce strategicamente e coordina tutte le attività di raccolta fondi garantendo la sostenibilità economica e finanziaria dei progetti e degli interventi umanitari di emergenza. È una figura che deve saper lavorare in sinergia con i settori della comunicazione e del marketing, e operare in diversi contesti. Gli Europrogettisti sono molto ricercati, anche in seguito ai nuovi programmi europei in materia di cooperazione e social innovation. Un profilo a forte vocazione internazionale che richiede un livello di inglese ottimo e disponibilità a viaggiare. Può operare infatti in Italia o all’estero, all’interno di una singola organizzazione o come consulente esterno. Il Project Manager della Cooperazione allo Sviluppo è un ruolo chiave ricercato dalle ONG, con base in Italia e missioni all’estero, così come il Manager dell’Emergenza Umanitaria – nei suoi vari sotto-profili professionali (Amministratore, Logista, Field Coordinator) per gestione delle tante – drammatiche e purtroppo in aumento – emergenze sul campo. Altra figura emergente è quella del Progettista e Manager di Innovazione Sociale. Si tratta di una figura ricercate sul territorio, come Cooperative sociali e ONG, che sanno sviluppare e creare progetti innovativi in ambito sociale sfruttando anche il potere delle piattaforme digitali e delle Apps, facendo project financing e reperendo finanziamenti in modi nuovi. Ad esempio, mediante le Fondazioni, il Crowfunding, le Aziende for Profit».
Il caso ong e i percorsi di studi
Uno degli ambiti più ambiti dai giovani è quello della cooperazione internazionale. Conta 20.372 risorse umane di cui 2.880 in Italia e 17.492 all’estero. A testimoniare questo trend c’è il proliferare di lauree triennali, specialistiche, master di primo e secondo livello che ruotano attorno a questo mondo. Tanto che nel 2004 nasce una collaborazione tra Crui, conferenza dei rettori delle università italiane, con il ministero degli Affari Esteri — Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo (Dgcs) volta all’identificazione di un modello accademico di cooperazione allo sviluppo e alla pace, che valorizzasse il ruolo dell’università nella formazione delle risorse umane e la sua missione sociale.
Le nozioni di base per chi vuole intraprendere un percorso professionale nel mondo della cooperazione sono economia ed economie politiche dello sviluppo
«Conoscere almeno due lingue tra cui obbligatoriamente l’inglese e per lo più il francese, è fondamentale. E avere dimestichezza con l’arabo è un valore aggiunto», spiega Gianni Vaggi, direttore del master di secondo livello in Cooperation and Development dell’Università degli studi di Pavia e membro del comitato esecutivo del Vis, Volontariato internazionale per lo sviluppo. «I corsi a grandi linee si dividono in una didattica frontale più lo stage, soprattutto all’estero. Le nozioni di base per chi vuole intraprendere un percorso professionale nel mondo della cooperazione sono economia ed economie politiche dello sviluppo».
Le soft skills
«Le posizioni aperte sul nostro sito», dice Gianluca Ranzato, International Umanitary manager di Save the Children, «sono molto dettagliate e precise. Ed insieme a alle competenze tecniche valutiamo, ovviamente, la motivazione: non tutti, anche se preparatissimi, sono pronti a lasciare comodità e certezze e cambiare vita». Paola Crestani, presidente di Link 2007, l’associazione di coordinamento consortile che raggruppa importanti organizzazioni non governative italiane, e del Ciai – Centro italiano aiuti all’infanzia, ha sintetizzato in 5 punti le soft skills, necessarie per chiunque, ed in qualunque ruolo o posizione, decida di lavorare nella cooperazione.
La motivazione in fondo è la soft skill più importante
«Preparazione», dice. «Questa è fondamentale per affrontare la professione con basi solide per riuscire a mettere a frutto al meglio le proprie capacità che verranno poi consolidate dall’esperienza unita al “problem solving” per conseguire gli obiettivi di volta in volta concordati». E poi a seguire: «Capacità relazionali, perché la qualità della relazione condiziona ogni azione di cooperazione. Per questo servono apertura mentale e competenze emotive consolidate. Affidabilità, il cooperante rappresenta l’organizzazione per cui lavora “sul terreno”, in luoghi spesso lontani dalla sede principale, a volte in contesti difficili. Da lei/lui dipendono non solo le attività ma anche la reputazione dell’organizzazione». E non per ultima la motivazione: «Credo sia la soft skill più importante», conclude Crestani, «consente anche di affrontare con determinazione e slancio tutti gli ostacoli e le difficoltà dell’impegno lavorativo. Condividere la mission dell’organizzazione in cui si lavora e gli obiettivi del proprio impegno garantisce una forza incredibile».
Le differenze dell’occupazione tra profit e non profit
[legacy-picture caption=”” image=”6381e670-623c-4ecc-bd08-a45533ad34e7″ align=””]Sabrina Stoppiello della Direzione Centrale per le Statistiche Economiche dell'Istat, sottolinea poi come «sotto il profilo socio-demografico, l’occupazione dipendente nel settore non profit presenti alcune specificità rispetto a quanto si osserva nelle imprese dell’industria e dei servizi».
In primo luogo «tra i dipendenti delle istituzioni non profit la quota di donne è molto superiore a quella di maschi (71,9% contro 28,1%) mentre nelle imprese prevale la componente maschile (59,4%). La distribuzione per classe di età è piuttosto allineata tra settore non profit e profit, con oltre il 57,3% dei dipendenti compreso nella classe 30-49 anni (56,9% tra le imprese), il 31,6% in quella 50 anni e più (27,3% nelle imprese) e l’11,1% sotto i 30 anni (15,6% nelle imprese)».
«I dipendenti delle istituzioni non profit», aggiunge Stoppiello, «presentano livelli d’istruzione superiori rispetto a quelli impiegati dalle imprese: i laureati sono il 31,0% (14,4% nelle imprese) mentre i lavoratori con al più un attestato di scuola secondaria di primo grado (licenza media) sono circa il 25% (34% nelle imprese). Rispetto al paese di nascita non si notano differenze significative, i lavoratori nati in Italia sono superiori all’85% in entrambi i casi».
Il cuore del Terzo settore rimane l'impegno civico dei cittadini. Uno sforzo che ha un valore in sé al di là della produzione di beni e servizi
Numeri che seppur significativi non devono però essere forieri di errori di prospettiva. «Risulta evidente come il Terzo Settore sia ormai una gamba del sistema economico e occupazionale del Paese che riesce a crescere nonostante la crisi e le difficoltà economiche. Ma bisogna essere chiari, non dobbiamo farci accostare troppo al profit. Perché il cuore del Terzo settore sono l'attività e l'impegno civico dei cittadini. Uno sforzo che ha un valore in sé al di là della produzione di beni e servizi che comporta», conclude la portavoce del Forum del Terzo Settore, Claudia Fiaschi.