Rischio e collaborazione: dove pende la bilancia dell’innovazione?
Davvero non sappiamo più innovare? Davvero la sfida delle nuove tecnologie non riesce ad attrarre le nostre piccole e medie imprese? Davvero il ponte fra aziende private e ricerca si è spezzato? Andare oltre i luoghi comuni è una priorità.
Massimo Caccia è un fisico delle particelle, coordina importanti progetti di ricerca e dopo una lunga stagione al Cern di Ginevra oggi insegna all'Università dell'Insubria ed è tra gli scienziati più attivi nello studio dell'impatto delle nuove tecnologie sulla vita quotidiana e sulle politiche sociali. Da circa vent'anni, Massimo Caccia si occupa di «valorizzare i risultati della ricerca attraverso la collaborazione industriale». In una parola: lavora sull'innovazione. Sui suoi rischi e sulle sue opportunità.
[legacy-picture caption=”” image=”a38d5351-4027-466f-b2e7-8acb86214bb0″ align=””]Il processo innovativo è molto sfaccettato. Per questo è importante mettere a confronto le parti contrapposte nei suoi processi primari.
Rischio. Perché il processo innovativo è un rischio? Perché può accadere che, per un portato ideologico o perché vittime di luoghi comuni, «attori di ricerca e aziendali non dialoghino fra loro». Se guardiamo gli indici di innovazione, il nostro Paese sembra ancora molto indietro in questo dialogo e, di conseguenza, nell'innovazione. «Proprio ora che nuove sfide stanno segnando il passo e modificheranno, a breve, il tessuto sociale, economico, forse persino relazionale. Dall'Intelligenza Artificiale al deep learning il problema è a monte: come innescare dinamiche di ricerca collaborativa?» Come condividere filosofie e valori… come darsi, di conseguenza, schemi operativi comuni?
Accanto al rischio, l'opportunità. L'opportunità risiede, appunto, nel far dialogare gli attori del processo rendendo un'innovazione tecnologica una virtuosa innovazione sociale. Anche in presenza di diversità e talvolta di divergenze ideali. «Se guardiamo le forze vive che animano il processo produttivo capiamo che c'è una grande possibilità di svolta», spiega Caccia, «soprattutto partendo da quelle tecnologie che nei prossimi anni cambieranno la nostra vita quotidiana».
Il vero motore dell'innovazione è la sfida e la risonanza fra i contrari.
«Il processo innovativo è molto sfaccettato. Per questo è importante mettere a confronto le parti contrapposte nei processi primari dell’innovazione». Procedendo per gradi, osserva il professor Caccia, e iniziando dalle grandi strategie «il primo punto di contrapposizione/confronto è: la visione dello Stato come innovatore alla quale si contrappone la visione di coloro che ritengono che il ruolo dello Stato nel processo innovativo è zero». Ma anche qui le cose stanno cambiando.
Un secondo punto è la valorizzazione dei risultati della ricerca: come portarli a entrare nel circle of innovation. In questo caso, «la contrapposizione/confronto è tra l’approccio new driven, dove è il denaro a guidare l’innovazione, in contrapposizione a chi ritiene che a contare sia il numero di contatti e di trasferimenti di conoscenze e di competenze». Sul primo fronte si collocano soprattutto gli anglosassoni, sul secondo l'École polytechnique di Losanna e l'Istituto Pedro Nunes di Coimbra.
Il terzo punto è quello relativo alla proprietà intellettuale. «Qui si scontrano – ma dobbiamo portarli al confronto – due posizioni assolutamente complementari: da un lato, quella di coloro che non vedono valore in un'intellectual property protetta da un brevetto e, in qualche modo, santificano il diritto di proprietà e il diritto di monopolio associato ad un brevetto; dall'altro, coloro che ritengono che la cosa più importante per la diffusione dell'informazione è il processo open, poiché anche in assenza di un'egemonia si riuscirebbe a esercitare un diritto».
Il quarto punto è capire come le grandi e le medie imprese vanno a perseguire il processo di innovazione all'interno delle loro strategie. Vi sono, ad esempio, «grandi imprese che hanno adottato il processo di open innovation con grande profitto» e medie imprese che intrattengono rapporti più esclusivi con singoli enti di ricerca universitari e fanno innovazione con una startup.
«Riavvolgendo il nastro e provando a formulare delle risposte – racconta il professor Caccia – possiamo dire che oramai tutti, persino i più scettici, si sono convinti che il vero grande investitore che si presenta con capitali di rischio ed è in grado di assorbire grandi fallimenti e grandi successi impliciti nel processo innovativo è lo Stato. Lo Stato avendo come priorità l'aumento di stato di benessere della società nel suo complesso può permettersi una serie di azioni che nessun venture capitalist può permettersi. Il problema è come evitare la socializzazione dei rischi e la privatizzazione dei ritorni. Qui la sfida è adottare un modello basato più su una filosofia condivisa che sull'adozione di regole».
[legacy-picture caption=”” image=”60cb8417-17d6-419c-9d48-9cb70cb402e5″ align=””]Il percorso è tutto da fare e va costruito, «sia nei grandi atenei, sia nei piccoli gruppi di ricerca nel modo in cui si rapportano alle imprese. Nelle imprese è necessario un cambio di mentalità: troppe imprese si sentono quasi in diritto di accedere a un know how e a certe compentenze solo perché certe ricerche sono finanziate dal pubblico».
In questo, conclude Massimo Caccia, «dovremmo guardare al modello anglosassone, dove il rapporto pubblico-privato è basato su paradigmi avanzati. Il tema che ci si pone, in ambito innovativo, è legato soprattutto al concetto di ricerca collaborativa, dove attraverso schemi di royalties l'impresa riduce il costo economico legato alla ricerca. In questo modello, però, l'azienda condivide i diritti su quanto ottenuto dalla ricerca stessa collocata in ambito universitario». D'altra parte, se quelle stesse imprese vogliono un diritto pieno di proprietà si dichiarano pronte a pagarne i diritti a prezzo di mercato».
Dentro questi schemi, «che sono prima di tutto schemi culturali e poi giuridici c'è tutto un movimento che, per fortuna, sta iniziando a crescere anche nel nostro Paese. Anche se la strutturazione del nostro tessuto economico in piccola-media impresa rappresenta un ostacolo non banale. Ma come ogni ostacolo è una sfida. E il vero motore dell'innovazione è, appunto, la sfida e la risonanza fra i contrari».