Il mondo del lavoro si muove verso la Life-Work Revolution
La pandemia come uno spartiacque. Il mondo del lavoro promette di non essere più lo stesso, dopo l’esperienza del Covid-19. La prova sono i numeri del fenomeno noto negli Stati Uniti come “La Grande Dimissione”, o “The Great Resignation”: secondo gli ultimi dati del Dipartimento del Lavoro statunitense, ad agosto ben 4,3 milioni di americani hanno lasciato volontariamente il lavoro. Una cifra record.
Un fenomeno simile si nota anche in Italia dove, secondo i dati del Ministero del Lavoro, ben 484mila lavoratori si sono dimessi volontariamente nel secondo trimestre del 2021. Un numero cresciuto del 37 per cento rispetto ai tre mesi precedenti e addirittura dell’85 per cento in relazione allo stesso periodo del 2020. Ma si tratta ancora delle prime rilevazioni e, per parlare di un fenomeno duraturo, avremo bisogno di ulteriori informazioni.
«Sarebbe in questo caso come se il Covid avesse modificato in qualche maniera il modo di approcciarsi al lavoro degli italiani, magari rafforzando delle tendenze già presenti o andando a implementare gli spostamenti verso professioni dell’area sanitaria, della cura della persona o delle tecnologie digitali. Ad ogni modo sarebbe interessante vedere quanto durerà questo fenomeno, per il quale servirebbero poi delle specifiche politiche pubbliche», ha dichiarato Francesco Armillei, economista e assistente di ricerca alla London School of Economics, tra i primi in Italia a studiare il fenomeno delle dimissioni.
Siamo di nuovo di fronte a un processo di evoluzione, esattamente come è avvenuto con lo smart working nel 2020.
Michela Vignoli, psicologa del lavoro e ricercatrice presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento
Il cambiamento
«Credo che l’attuale fase del mondo del lavoro sia facilmente decifrabile: siamo di nuovo di fronte a un processo di evoluzione, esattamente come è avvenuto con lo smart working nel 2020». A dirlo è Michela Vignoli, psicologa del lavoro e ricercatrice presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. «Come è noto, le aziende stanno richiamando i lavoratori in ufficio e questo ha effetti spesso contrastanti tra chi non vede l’ora di tornare in presenza e chi invece preferisce restare a casa».
A molti lavoratori la pandemia ha mostrato un lato diverso della vita, non più incentrata sul lavoro e su orari di ufficio spesso scomodi e alienanti, e ha permesso di curare altri aspetti spesso trascurati, come la famiglia, gli amici o gli hobby. Si è perciò passati da una fase di ricerca del work-life balance a una vera e propria life-work revolution, come ha scritto Forbes.
Un momento in cui abbiamo sperimentato maggiore flessibilità, magari mettendo a volte il lavoro in secondo piano e privilegiando altri aspetti della vita. Un piano che può riguardare tutti e che può interessare tanto i lavoratori quanto le lavoratrici, le più penalizzate da questa stagione pandemica. Secondo “Il mercato del lavoro 2020”, documento del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, INPS, INAIL e ANPAL, la percentuale di donne che ha perso il lavoro lo scorso anno è stata doppia rispetto a quella degli uomini, con conseguente caduta del tasso di occupazione femminile all’1,3 per cento rispetto allo 0,7 per cento maschile. «Il fenomeno certamente può interessare anche loro, visto che molte sono state costrette a fare delle scelte drastiche durante la pandemia e perciò potrebbe esserci voglia di ripensare a questo modello. Ma è ancora troppo recente per poter trarre delle conclusioni, visto che i numeri risalgono a malapena alla scorsa primavera», evidenzia Vignoli.
In un contesto nel quale è lecito aspettarsi una forza lavoro non completamente in presenza, è importante anche formare i superiori, dare loro competenze per comprendere lo stato attuale.
Michela Vignoli
L’opinione dei datori di lavoro
Se da un lato molti lavoratori stanno immaginando una vita differente, non più incentrata soltanto sulla professione, discorso diverso riguarda i dirigenti che, finita l’emergenza, vorrebbero vedere nuovamente i propri dipendenti in ufficio.
La loro principale preoccupazione, cioè il calo della produttività, non sembra però essersi manifestata in questo periodo pandemico. Lo raccontano i dati del World Economic Forum, che ha calcolato come lo smart working negli Stati Uniti abbia portato a un incremento della produttività del 4,6 per cento.
Per l’Italia c’è invece il rapporto dell’ISTAT che evidenzia come ci sia stata una crescita della produttività per ora lavorata del 2,7 per cento nel 2021. A colpire è soprattutto il dato del settore terziario dove, rispetto a un calo complessivo delle ore lavorate dell’11,8 per cento, si è registrato un aumento della produttività oraria del lavoro del 4,2 per cento, un dato quasi anomalo se paragonato alle tendenze del comparto.
Perché cambiare allora registro? «Il futuro è ancora molto incerto, ma in un contesto nel quale è lecito aspettarsi una forza lavoro non completamente in presenza è importante anche formare i superiori, dare loro competenze per comprendere lo stato attuale», sottolinea Vignoli. «Ciò che conta per il mondo del lavoro di domani è creare una vera e propria cultura aziendale che agevoli tutti e offra la possibilità a ciascuno di poter dare il suo meglio a prescindere da dove si trovi». Un passaggio per nulla scontato: «La situazione può migliorare soltanto se entrambi gli aspetti procedono in parallelo, con persone formate e una cultura aziendale che agevoli un simile cambiamento. In questo modo è possibile immaginare un contesto lavorativo certamente migliore».