Lagioia: raccontare la realtà aiuta a dare un nome alle cose, così che facciano meno paura
«Fare lo scrittore è come giocare tennis: sei da solo sul campo, sia nei momenti positivi sia in quelli negativi, gestisci tutto da solo. Lavorare con altri allora è come un gioco di squadra, che inevitabilmente offre una prospettiva diversa».
Nicola Lagioia è uno scrittore e tante altre cose. Il suo libro più noto, “La città dei vivi”, ricostruisce la storia dell’omicidio di Luca Varani avvenuto a Roma nel 2016 per mano di Marco Prato e Manuel Foffo. È stato pubblicato nel 2020, edito da Einaudi, ha vinto il Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane e il Premio Napoli nel 2021. Poi, è diventato un podcast grazie alla collaborazione con Chora Media, e qualche mese fa è stato portato teatro. È cambiato nella forma, si è adattato a contenitori diversi. Come ha dovuto fare il suo autore.
Lagioia è uno scrittore, si sente uno scrittore, la scrittura è ciò che gli piace di più. «Scrivere è la mia priorità», dice. «Quando ho scritto “La città dei vivi” non pensavo ad altre forme se non a quella del libro, e lo stesso accadrà con il prossimo libro, non penserò alle incarnazioni che potrà avere».
Il podcast de “La città dei vivi” è un esperimento successivo, del 2021, nato grazie al rapporto d’amicizia con Mario Calabresi e Michele Lotti di Chora Media. Un modo anche per dare luce a quell’enorme mole di documenti non usati per il libro, comprese interviste che non avevano avuto spazio per parlare. Però Lagioia non conosceva lo strumento, ha dovuto imparare per l’occasione, l’ha studiato.
«Trovo lo stato attuale dei podcast una forma narrativa ancora molto aperta, dove si può ancora sperimentare parecchio: l’idea di lavorare con una forma narrativa non codificata mi piaceva», spiega. «Chissà se si arriverà mai alla forma aurea del podcast, come è stato per altri strumenti: dall’invenzione della radio alla definizione dei palinsesti come li conosciamo oggi ci sono voluti decenni. Oggi il podcast è come la radio prima dei palinsesti».
Adattarsi a strumenti e contenitori diversi non è solo un’esigenza degli scrittori, in un’epoca in cui in molti lavori si richiedono capacità trasversali.
Fare radio mi ha insegnato molto. Devi imparare a sbagliare, a gestire l’imprevisto, a improvvisare.
E per uno scrittore saltare dalla penna al microfono, o anche solo dalla radio – che l’autore barese ha imparato a conoscere nel 2010 conducendo la rassegna Pagina3 su Rai Radio Tre – al podcast non è un passaggio automatico. Entrano in campo competenze diverse, skill diverse.
«Fare radio mi ha insegnato molto – spiega – perché è molto diverso dalla scrittura: verba volant, per definizione, quindi non puoi non sbagliare. Se una pagina la puoi riscrivere tutte le volte che vuoi, in radio devi imparare a sbagliare, a gestire l’imprevisto, a improvvisare, anche se io cerco di farlo il meno possibile».
Nel 2013, 2014 e 2015 Lagioia è stato anche uno dei selezionatori della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia; dal 2017 dirige il Salone internazionale del libro di Torino. Dall’inizio degli anni Duemila fino al 2017 ha diretto “nichel”, la collana di letteratura italiana di Minimum Fax.
«Io sento sempre l’esigenza di fare anche altro rispetto a scrivere romanzi. La scrittura è la cosa che mi piace di più al mondo, ma è anche l’unico vero luogo di libertà totale tra i miei lavori. Anche per questo non voglio affidare la mia sopravvivenza alla scrittura dei libri: forse ne sarei condizionato in qualche modo, quindi ho bisogno di un secondo lavoro che mi dia poi la libertà di scrivere quello che mi pare. Inoltre, se scrivessi e basta forse mi seppellirei in una stanza per otto o nove ore consecutive. E magari anche il resto della mia vita andrebbe a rotoli, perché nell’equazione bisogna considerare anche l’importanza di relazioni, affetti e tutto il resto».
La scrittura è la cosa che mi piace di più al mondo, ma è anche l’unico vero luogo di libertà totale tra i miei lavori.
Trovare altri ambiti di lavoro, sperimentare una multidisciplinarietà non scontata, è diventato così un modo per valorizzare il lavoro da scrittore. In questo senso il ruolo da direttore del Salone del Libro di Torino ha avuto un valore inestimabile: «Il Salone del Libro è per me una grandissima responsabilità, è un ruolo istituzionale e mi fa sentire responsabile verso gli autori, le case editrici, chi lavora al Salone, anche per l’indotto sul territorio. Quindi mi fa sentire meno libero, ma mi ha insegnato molto, soprattutto l’arte della mediazione e della diplomazia».
Per Nicola Lagioia, allora, dirigere il Salone rappresenta la massima distanza possibile dall’espressione artistica della letteratura, che resta una pulsione primordiale. Ma la letteratura di oggi secondo l’autore barese ha un’influenza meno marcata sulla società contemporanea rispetto a epoche precedenti: «Colpa soprattutto di una critica meno presente, più debole. La gente ha continuato a scrivere romanzi e a leggerne, ma la critica non è più in grado di dettare la linea e di catalogare e dare un nome alle cose. L’influenza dei romanzi è diventata più sotterranea: è difficile che il prossimo romanzo muova qualcosa a livello politico o di costume, ma tutti i romanzi continuano a cambiare la percezione del mondo, i suoi codici narrativi, influiscono a un livello più nascosto: basti pensare alle serie tv che si ispirano a romanzi e ne sono semplicemente una versione rozza».
Tutti cerchiamo in maniera disperata di provare a raccontare la realtà, per rappresentare il nostro tempo, che serve anche per poter dare un nome alle cose, così che ci facciano meno paura.
Raccontare storie, dunque, è ancora un modo per determinare la realtà, per imparare a conoscerla e a maneggiarla. Che forse è il motivo per cui viviamo in un momento di proliferazione sconfinata di storie, che arrivano al pubblico attraverso libri, podcast, serie tv.
«È vero che c’è una super produzione», conclude Nicola Lagioia. «Ma anche una grande fame, altrimenti non ci sarebbe mercato. Forse è dovuto al fatto che viviamo un periodo talmente incerto, a causa della politica, dei disordini sociali, del clima, della tecnologia, che tutti i narratori cercano la forma migliore per raccontare storie. In questa iperproduzione tutti cerchiamo in maniera disperata di provare a raccontare la realtà, per rappresentare il nostro tempo, che serve anche per poter dare un nome alle cose, così che ci facciano meno paura».