Così si formano i giovani progettisti che costruiranno città inclusive e sostenibili
Pensare e poi progettare spazi ma anche oggetti e contesti urbani e uffici che siano accessibili a chiunque, indipendentemente dalle condizioni fisiche, economiche, sociali di partenza. E che siano sostenibili per l’ambiente. È questo, per definizione, quello che fa il design inclusivo. Un concetto che oggi non si ferma lì: può diventare fondamentale anche per affrontare le conseguenze imposte dai cambiamenti climatici.
Pochi mesi fa, in occasione dell’ultima sessione del Comitato United Nations Economic Commission for Europe – UNECE dell’Onu sullo sviluppo urbano, l’edilizia abitativa e la gestione del territorio, i partecipanti hanno firmato la Dichiarazione di San Marino: si tratta di un documento che è un impegno a supportare il lavoro di architetti, ingegneri, designer, attori coinvolti nella pianificazione al fine di realizzare case, infrastrutture, città che siano vivibili secondo netti principi ispiratori. Tra questi la circolarità, il rispetto dei sistemi naturali, l’identità culturale, la capacità di previsione dei fenomeni. Gli stessi alla base del percorso di alta formazione universitaria del Politecnico di Milano: il PoliMI Ambassador in Inclusivity Design.
È la prima volta che un ateneo italiano consente di intraprendere questo tipo di percorso nella cornice di corsi di laurea magistrale o a ciclo unico. «Hanno risposto alla nostra proposta cinquanta studenti, un ottimo numero se si pensa che il programma è stato lanciato in estate. Inoltre il nostro obiettivo è quello di costruire un percorso che porti ad ulteriori adesioni nel corso del biennio della magistrale», spiega Isabella Nova, docente del Dipartimento di Energia e responsabile dei tre programmi PoliMI Ambassador. L’Inclusivity Design è solo il più recente programma del PoliMi, che l’anno scorso aveva avviato altri due indirizzi innovativi: Green Technologies e Smart Infrastructures, partiti nell’ambito del progetto interuniversitario Tecnologie per le Transizioni che forma ambasciatori con competenze specifiche e interdisciplinari, «ma è l’inclusivity design a unire davvero le tre anime del Politecnico ovvero l’ingegneria, l’architettura e il design», aggiunge Nova. Il titolo si ottiene acquisendo 130 crediti, dieci in più rispetto al corso magistrale, di cui almeno 30 in attività connesse al ruolo di ambassador.
L’attenzione alla dimensione umana
Il principio che vale per ogni corso e in ogni settore della progettazione di spazi inclusivi e sostenibili, dagli oggetti quotidiani alla pianificazione delle città, «è quello dell’attenzione alla dimensione umana. Finora abbiamo pensato a spazi attenti alla velocità, alle auto, non alle persone, noi stiamo cambiando la rotta formando i nostri ragazzi ad un diverso approccio, prima di tutto», spiega la professoressa Nova. E per compiere questo cambio di paradigma, i corsi del PoliMi si affiancano e si appoggiano ai migliori changemakers su piazza. Come la startup inglese Notpla che, come indica il nome, contrasta l’uso della plastica proponendo sul mercato imballaggi totalmente compostabili e biodegradabili nel giro di poche settimane. Sacchetti per le salse, confezioni per cibo da asporto, contenitori di bevande, tutti costituiti da alghe e piante, un connubio di materiali che riduce l’acidificazione degli oceani e abbatte l’inquinamento. Le città, che coprono a malapena il 2 per cento della superficie terrestre, sono responsabili del 60 per cento delle emissioni di gas serra globali. A renderlo noto è C40, network internazionale di oltre cento sindaci che puntano a uno sviluppo urbano sostenibile.
«Le strategie adottate sono molteplici e complementari. Dai “superblock” sperimentati a Barcellona, aree in cui è permesso solo il traffico locale così da ricavare suolo libero per la circolazione fisica e la presenza massiccia di alberi, fino al modello della città dei 15 minuti introdotto a Parigi: fare in modo che i luoghi siano raggiungibili da casa, a piedi o in bici, al massimo in un quarto d’ora. Pensiamo saranno i nostri studenti a portare i primi cambiamenti concreti a Milano e in Italia», aggiunge Nova.
E tra loro ci sarà sicuramente Sofia Girard, 24 anni, viene da Verona e studia al Politecnico milanese Management Engineering, indirizzo in Sustainability and Social Impact. «Immagino il mio futuro professionale nel Terzo settore o in una realtà di intermediazione tra pubblico e privato, anche per questo mi sono iscritta a questo nuovo percorso formativo. Mi incuriosivano quattro esami in particolare: “Ecomics of public issues”, “Design della comunicazione e culture di genere”, “Human modelling in Engineering” e, appunto, “Inclusive Design”. Vorrei progettare qualcosa che nella sua idea iniziale sia inclusivo. Questo implica che non possa essere aggiustato a posteriori», dice.
Per attuare la rivoluzione verde ci deve essere una rivoluzione sociale a 360°.
Sofia Girard, studentessa di Management Engineering al PoliMI
«Inoltre mi sono accorta studiando che puntare solo sulla sostenibilità di una casa, di una città o dei prodotti, orientati quindi esclusivamente sul green, sta ampliando il divario sociale perché, ad esempio, mangiare sostenibile è ancora costoso oppure il monopattino elettrico è un mezzo usato prevalentemente in Italia da persone con un reddito superiore a 70mila euro all’anno». In sintesi, secondo Girard, «per attuare la rivoluzione verde ci deve essere una rivoluzione sociale a 360°».
Un altro esempio di opere del futuro inclusivo, su cui gli studenti stanno già lavorando, riguarda i veicoli, ancora oggi sono concepiti in linea generale per il corpo maschile, oppure il corrimano dei bus spesso non è pensato per i disabili: «Le soluzioni inclusive vanno individuate non solo nel prodotto finito, ma anche nei processi produttivi», spiega Sofia Girard.
Una persona con disabilità non si dovrà chiedere prima se potrà accedere a quell’ufficio per un colloquio di lavoro o se potrà prendere quell’autobus o treno. Potrà farlo e basta.
Isabella Nova, docente del Dipartimento di Energia al PoliMI
«Le infrastrutture non devono ridursi solo a investimenti, devono creare valori condivisi», è il motto di tutti e tre i corsi, ricorda la professoressa Nova che per spiegare la sua applicazione cita il caso dello studio delle stazioni ferroviarie: l’intenzione è renderle degli hub intermodali, ovvero dei piccoli quartieri in armonia con il contesto, privi di barriere architettoniche, in grado di mettere in relazione i gruppi umani che li abitano. Alcuni modelli sono già operativi, altri sono da implementare. «Ciò che avverrà tra dieci anni, ma lo stiamo già iniziando a costruire, è un fiume che diventerà sempre più grande e una persona con disabilità non si dovrà chiedere prima se potrà accedere a quell’ufficio per un colloquio di lavoro o se potrà prendere quell’autobus o treno. Potrà farlo e basta. Anche perché – conclude -, se c’è una visione di lungo periodo, i benefici della comunità sono maggiori».