Salario minimo, gli effetti sull’occupazione e la situazione italiana
L’Italia è uno dei pochi Paesi europei senza salario minimo valido per tutti. I minimi retributivi sono stabiliti dalla contrattazione collettiva nazionale, ma con l’esplosione dei “contratti pirata” negli ultimi anni e la frammentazione delle rappresentanze sindacali, si assiste ormai a un aumento del cosiddetto “lavoro povero”. E davanti ai salari che scendono, si riaccende a intermittenza nel nostro Paese il dibattito sull’introduzione della misura. Soprattutto ora che anche dalla Commissione europea è partita la proposta di una direttiva per l’introduzione del salario minimo negli Stati membri.
La teoria economica moderna, in effetti, sembra sempre più consapevole dell’importanza di avere una base di partenza, un pavimento, per garantire giusti stipendi ai lavoratori, soprattutto perché è ormai superata l’idea che il salario minimo possa spostare l’equilibrio del mercato del lavoro.
Uno dei contributi fondamentali di David Card, insignito quest’anno del Premio Nobel per l’Economia assieme a Joshua Angrist e Guido Imbens, riguarda infatti gli effetti del salario minimo sull’occupazione. Con Alan Krueger, nel 1994 ottenne dai suoi studi un risultato che allora fece scalpore: l’aumento del salario minimo non porta necessariamente a un minor numero di posti di lavoro.
Una mappa europea
Anche se con differenze notevoli nelle cifre stabilite come soglia minima, 21 Paesi su 27 dell’Unione europea oggi hanno un salario minimo legale. Secondo i dati forniti da Eurostat, 13 Stati – soprattutto quelli Est Europa – assicurano salari minimi al di sotto dei mille euro mensili. Spagna e Slovenia si trovano invece nella fascia tra i 1.000 e i 1.500 euro. Gli altri sei – Irlanda, Germania, Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo – superano i 1.500 euro mensili. Si va dai 332 euro della Bulgaria ai 2.257 euro del Lussemburgo. Ovviamente, queste cifre vanno adattate al costo della vita e quindi al potere d’acquisto che garantiscono in ciascuno Stato.
L’Italia, che si caratterizza per la presenza diffusa della contrattazione collettiva, è uno dei pochi Paesi dell’Ue senza salario minimo legale insieme a Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia.
La situazione italiana
Il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha incaricato un gruppo di lavoro, composto da economisti e sociologi, per realizzare una disamina degli interventi e delle misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia.
Nella relazione presentata, si spiega che in Italia non è sufficiente avere un lavoro per non cadere in povertà. E che la povertà lavorativa è cresciuta dal 10,3% del 2006 al 13,2% del 2017, concentrata soprattutto tra lavoratori autonomi e a tempo parziale.
Da tempo, in Parlamento sono state presentate proposte per introdurre il salario minimo per legge, ma non si è mai arrivati all’approvazione di una norma. Per questo motivo, il gruppo di lavoro ha avanzato cinque proposte indirizzate a sostenere i redditi individuali e familiari. E al primo posto, si avanza l’idea della introduzione di minimi salariale adeguati.
«Minimi salariali adeguati sono una condizione necessaria (ma non sufficiente) per combattere la povertà lavorativa tra i lavoratori dipendenti», hanno spiegato gli esperti su Lavoce.info. «Nel caso italiano, sono due le opzioni da tempo in discussione: estendere l’applicazione dei contratti collettivi principali a tutti i lavoratori del settore interessato (quindi anche alle imprese che non hanno firmato quel contratto) oppure introdurre un salario minimo per legge».
Le due opzioni si scontrano «con ostacoli politici e tecnici che da anni bloccano ogni progresso sul tema. Per questo motivo, suggeriamo di partire con la sperimentazione di un salario minimo per legge o griglie salariali basate sui contratti collettivi in un numero limitato di settori, caratterizzati da maggiore criticità per valutarne gli impatti economici e quelli sul sistema di relazioni industriali».
I modelli sono quelli inglese e tedesco. In Germania, prima della misura a livello nazionale, sono stati introdotti dei minimi salariali per legge in settori specifici dove la contrattazione era debole. In Gran Bretagna, invece, la Low Pay Commission, composta da rappresentanti dei sindacati ed esperti dal mondo accademico, fu incaricata di definire il livello del salario minimo che venne poi introdotto nel 1999.
Gli studi del premio Nobel per l’Economia
La ricerca del premio Nobel David Card sui salari minimi dei lavoratori dei fast food nel New Jersey è considerata un punto di svolta sul tema. Card, professore di economia all’Università della California, Berkeley, nel 1994 aveva pubblicato un articolo, co-firmato con Alan Krueger, che ha aperto nuove strade al modo di pensare alla determinazione dei salari. Prima del loro articolo, la teoria convenzionale nella ricerca economica prevedeva che alzare il salario minimo avrebbe ridotto l’occupazione.
Per anni, infatti, la ricerca nel settore è rimasta slegata da studi empirici, evidenze statistiche pratiche e altri fattori. L’economia dei libri di testo dice, in estrema sintesi, che un salario minimo superiore a quello determinato dalle forze di mercato della domanda e dell’offerta renderebbe un maggior numero di persone disposte a lavorare, ma un minor numero di imprese in grado di permettersi di pagare una retribuzione più elevata.
La conseguenza, in teoria, dovrebbe essere la distruzione del posto di lavoro, quindi una disoccupazione molto alta. Tuttavia, inserendo nell’equazione gli studi empirici, si è scoperto che in concreto questa conseguenza non esiste, o non in un legame così diretto come vorrebbe far pensare la teoria economica classica.
Lo studio di Card e Krueger è stato una specie di rivoluzione in questo campo. In “Salari minimi e occupazione: un case study dell’industria dei fast food nel New Jersey e in Pennsylvania”, i due economisti hanno paragonato i tassi di occupazione in 410 fast food (tra cui Burger King, KFC e Wendy’s) nel New Jersey e in Pennsylvania. Il confronto è avvenuto su occupazione, salari e prezzi nei negozi del New Jersey, Stato nel che nel 1992 aveva aumentato il salario minimo da 4,25 a 5,05 dollari l’ora, e in quelli della Pennsylvania che invece non aveva cambiato il suo salario minimo. I ricercatori hanno scoperto così che i cambiamenti nel salario minimo di uno Stato non hanno fatto alcuna differenza nell’occupazione.
Lo studio ha avuto un tale successo che non solo ha rivoluzionato il pensiero sul salario minimo, ma ha anche rivoluzionato il modo di guardare a come dovrebbero essere condotti gli studi economici, sfidando un’ortodossia che aveva dominato il settore per decenni.
Una nuova visione?
Una lunga analisi della radio americana Npr aiuta a spiegare il cambiamento portato dallo studio di Card e Krueger: «Dalla sua pubblicazione, la maggior parte degli economisti tradizionali ha cambiato le proprie posizioni sui salari minimi. Nel 1978, il 90% dei membri intervistati dall’American Economist Association ha convenuto che i salari minimi riducono sostanzialmente l’occupazione tra i lavoratori a basso salario. Nel 2000, solo il 46% era d’accordo».
Nel 2014 un gruppo di importanti economisti americani, tra cui sette vincitori del Premio Nobel – Kenneth Arrow, Peter Diamond, Eric Maskin, Robert Solow, Thomas Schelling, A. Michael Spence, Joseph Stiglitz – e otto ex presidenti dell’American Economic Association, ha firmato una lettera al presidente degli Stati Uniti e al Congresso sostenendo i benefici economici dell’aumento del salario minimo a 10,10 dollari.
La lettera esortava i legislatori a mettere in atto un aumento graduale per tre anni: questo avrebbe permesso ai lavoratori con salario minimo – impiegati a tempo pieno per l’intero anno – di ricevere un aumento dal loro stipendio da 15mila dollari a circa 21mila dollari.
La visibilità di queste richieste, la spinta propulsiva data dalla vittoria di un premio Nobel e il successo degli studi sul salario minimo aprono alla possibilità che in molti Paesi la politica cambi le sue posizioni sull’argomento, sia più disposta a proporre leggi per l’introduzione del salario minimo e magari a garantire ai lavoratori salari più alti.
Qualche esempio si vede già. Joe Biden negli Stati Uniti ha proposto di alzare il salario minimo dei lavoratori pubblici federali a 15 dollari l’ora; in Germania, l’accordo del nuovo governo guidato da Olaf Scholz prevede l’innalzamento del salario minimo a 12 euro l’ora.