Opus 2065, a Bologna il cluster che coltiva il futuro dei giovani
A 97 anni, ragionare su un arco di tempo che si spinge fino al 2065: basta questo per sèiegare la capacità progettuale e insieme visionaria di Marino Golinelli, classe 1920, imprenditore modenese, leader nel ramo farmaceutico con la sua Alfa Sigma. Nel 1988 creò la Fondazione Golinelli, a cui ha già donato 85 milioni di euro di sue risorse personali. Il suo ultimo sogno è «costruire tutti assieme una società capace di adottare una visione unitaria delle nostre origini, della nostra genesi, che non abbia paura di affrontare un futuro imprevedibile: essere coscienti e partecipi della responsabilità sociale che ognuno di noi ha, aiutando i giovani a crescere e a essere liberi di esprimere se stessi, e tutti a vivere nella costruzione di una società armonica».
È l’obiettivo di Opus 2065, un programma pluriennale che Golinelli finanzierà con un trust affidato alla Fondazione. Il programma metterà a sistema le diverse azioni progettuali già avviate nei campi dell’educazione, della formazione, della cultura, della ricerca, dell’innovazione e dell’impresa. Gli obiettivi principali sono tre: lo sviluppo di nuove forme altamente innovative di formazione dei giovani e degli insegnanti; un centro di ricerca su campi futuribili del sapere; un fondo per il supporto di nuove attività imprenditoriali. Come output nasceranno a Bologna una Scuola di Dottorato residenziale in Data Science, un’Alta Scuola per laureandi dei corsi di Laurea Magistrale e un Training Lab per docenti, per individuare nuovi approcci e metodi di formazione.
Tutto ciò è stato annunciato lo scorso 11 ottobre, in occasione dell’inaugurazione a Bologna del Centro Arti e Scienze Golinelli, altri 700 mq e 3 milioni di euro di investimento per un luogo che sarà la culla in cui i giovani potranno immaginare il loro futuro. Il nuovo Centro sorge dinanzi all’Opificio Golinelli, nato nel 2015 con l’ambizione di essere la Cittadella per la conoscenza e la cultura, 9mila mq, riqualificati grazie a un investimento di 12 milioni di euro, che hanno già ospitato 200mila ragazzi. Le Fonderie Sabiem, che fino al 2008 occupavano quei tre ettari nella periferia occidentale di Bologna, fra la via Emilia, il Reno e la ferrovia, sono solo un ricordo. Antonio Danieli è il direttore generale della Fondazione Marino Golinelli. Con lui cerchiamo di entrare dentro questa enorme capacità di visione e di ispirazione.
[legacy-picture caption=”” image=”7e17cc96-2a49-42a5-9d15-21815b0d4c1b” align=””]La prima attività del nuovo Centro sarà una mostra che ha un titolo che è quasi un programma: “Essere pronti per il futuro senza sapere come sarà”. È anche il programma della Fondazione?
La mostra vuole riflettere su quali stimoli noi adulti oggi dobbiamo dare ai giovani. Il nostro – lo sappiamo – è un mondo globale sempre più interconnesso, imprevedibile, multiculturale: non si tratta di rendere i giovani capaci di prevedere il futuro ma di lavorare su ciò che consente loro di giostrarsi in questo mondo, di sfruttare le enormi possibilità che oggi ci sono. Per farlo occorre dare loro una nuova cassetta degli attrezzi e soprattutto la giusta dose di fiducia che li renda consapevoli di essere in grado di gestire l’imprevedibilità. I giovani hanno le potenzialità necessarie per crearsi il loro futuro, ma noi abbiamo la responsabilità di dare loro gli strumenti per farlo, a cominciare dalla fiducia. Ci sono ricerche molto interessanti sull’imprenditorialità che dicono come i giovani oggi abbiano quasi nel DNA la CSR e la componente sociale del valore aggiunto: se si combinano la passione, gli strumenti tecnologici oggi disponibili e la volontà di realizzare un cambiamento positivo, un valore globale, il futuro sarà radioso. Noi abbiamo la grande responsabilità educativa di mostrare ai giovani che queste cose possono stare insieme.
I giovani hanno le potenzialità necessarie per crearsi il loro futuro. Noi abbiamo la responsabilità di dargli la giusta dose di fiducia.
Opificio Golinelli ha aperto nel 2015 e in queste settimane, a soli due anni di distanza, avete inaugurato sia uno dei primi laboratori territoriali per l’occupabilità, finanziato dal MIUR e promosso da una rete che unisce alcune scuole di Bologna e alcune realtà pubbliche e private dell’Emilia-Romagna, sia il nuovo Centro Arti e Scienze: come si fa a fare così tanto in così poco tempo?
Il segreto è Marino Golinelli. La Fondazione esiste dal 1988, ma alcuni anni fa Golinelli ha deciso di riposizionare la Fondazione, dotandola di risorse, di una governance e di una vison che le consentano di proiettarsi nel futuro. La Fondazione ha deciso di abbandonare i lidi del solo agire sussidiario per sedersi al tavolo con le istituzioni in maniera paritetica, condividendo le strategie di sviluppo. Questi elementi hanno dato un’accelerazione esponenziale alla Fondazione negli ultimi otto-nove anni e ci hanno portato a definire un programma pluriennale con un orizzonte molto ambizioso: Opus 2065. Il nostro obiettivo è far crescere le nuove generazioni, finora questo si è tradotto prevalentemente in scolarità, educazione, formazione ma ora si stanno aggiungendo ricerca e sostegno all’imprenditorialità. Quindi, sintetizzando, c’è la volontà di restituire da parte del fondatore, con afflato strategico e non solo sussidiario, agendo in una logica integrata.
Perché avete scelto di mettere casa in una zona periferica, rigenerando delle fonderie?
Aprire l’Opificio in una zona non centrale di Bologna è stata una scelta fortemente voluta e quello che sta accadendo oggi è che si cominciano a fare ragionamenti strategici per lo sviluppo di questo quadrante della città. Una città oggi non può che essere policentrica, essere nel quadrante Ovest di Bologna ci proietta verso Modena, Ferrara, Milano, Torino… Per fare innovazione e sviluppo sociale bisogna avere un approccio “glocale”, con un forte radicamento nel territorio – abbiamo legami forti con i circoli sportivi, le associazioni studentesche, i ragazzi del quartiere che fanno progetti estivi contro la dispersione scolastica – e allo stesso tempo uno sguardo macro, al cluster del Centro Nord, con contatti internazionali. L’anno scorso le nostre attività hanno coinvolto circa 110mila studenti, di cui 20mila arrivavano da tutta Italia. È qualcosa di necessario se vogliamo competere non dico con la Silicon Valley ma con Boston e Tel Aviv. La qualificazione del tessuto urbano significa annodare i fili di un tessuto sociale, in questo c’è una metafora importante, perché l’Opificio viene dopo la visione, è una casa per la cultura e la conoscenza, è il vestito di quello che noi siamo… ma prima c’è la visione.
Per fare innovazione e sviluppo sociale bisogna avere un approccio “glocale”. È necessario se vogliamo competere con Boston e Tel Aviv.
Avete scelto il nome “Opificio” e anche il nuovo Centro punta a «ricomporre la frattura fra cultura umanistica e scienze»: credete che questa sia la chiave per il futuro?
Teniamo all’opus, al fare, a un sapere olistico che tenga insieme arte, scienza e tecnologia, il sapere umanistico e quello scientifico ma anche il sapere e il saper fare: puntiamo sulla parte esperienziale e laboratoriale, perché la cultura nasce dal conoscere e dal sapere fare. È evidente però che nessuno è tuttologo e qui arriva il terzo aspetto caratteristico della Fondazione, che è il lavoro di rete: l’idea è quella di creare un territorio educante che metta le imprese vicine alle scuole, con l’aiuto delle amministrazioni e il ruolo fondamentale dei centri di ricerca. Il nuovo laboratorio territoriale per l’occupabilità ne è un po’ l’emblema. Il nostro ruolo? Quello di catalizzatore, di enzima, di aggregatore.