Dietro le quinte della serialità, come diventare professionisti di una serie tv
Parlando di serialità, lo scrittore Gabriele Romagnoli scrive: “Eravamo (più o meno tutti) così impegnati a parlare male della televisione che non ci siamo accorti di quanto fosse (almeno in parte) diventata bella”, attribuendo alle serie l’epiteto di “la meglio tv”. Le serie, infatti, hanno per Romagnoli la straordinaria capacità di raccontare, più del cinema e della letteratura contemporanea, la complessità del reale, di affrontare con codici innovativi temi alti, di portarci altrove nel tempo e nello spazio continuando a raccontare il presente nel quale viviamo e che, spesso, non riusciamo a decifrare.
La serialità televisiva, “la vera espressione del nostro tempo” l’ha definita Aldo Grasso, ha una storia lunga. La sua evoluzione, nelle forme e nei linguaggi, ha seguito le sorti del medium, la sua frantumazione in altri schermi, su altri dispositivi, e i mutamenti, inevitabili, nelle modalità di fruizione, divenuta più ricercata, attenta e complice. La narrazione si è fatta densa, i personaggi e le loro storie complesse, arrivando a tracimare gli argini del genere.
Le ragioni del suo successo, oggi diventato esponenziale grazie a piattaforme come Netflix, Amazon, Apple tv, sono molteplici, hanno a che fare con l’urgenza atavica dell’uomo di farsi raccontare storie, con il bisogno infantile “di riudire”, come scriveva Umberto Eco, “sempre la stessa storia, di trovarsi consolati dal ritorno dell’identico, superficialmente mascherato”, con il senso di appartenenza a una comunità con cui condividere il sogno, l’aspettativa, persino un vero e proprio stile di vita.
Naturalmente, quando si parla di serialità televisiva bisogna considerare anche forme d’intrattenimento più classiche, tipiche delle tv lineari (Mediaset, Rai, in parte Sky), come i reality show nelle sue diverse declinazioni, il talent show, il cooking show, la real tv. Nient’altro che la messa in scena, puntata dopo puntata, della realtà o, sarebbe più corretto dire, della sua simulazione; in una definizione più da manuale, la “tematizzazione di eventi, situazioni, tempi e persone che vengono presentati come veri, contemporanei e autentici”. Anche questo tipo di produzione si è fatta più intricata, arrivando a colonizzare altri luoghi e linguaggi mediali, riducendo così la distanza con lo spettatore e aumentandone, per riflesso, la sua fedeltà.
È chiaro che questo amore per le serie e la loro longevità non sarebbero tali senza il lavoro incredibile di scrittori, autori, registi, produttori, scenografi, montatori. Per scoprire come nasce una storia seriale e quali e quante competenze occorrono per lavorare in un settore così affascinante e ambito, PHYD ha organizzato l’evento “Professionisti delle serie tv”. L’incontro era parte del programma Education & Entertainment di FeST – il Festival delle Serie TV, prima kermesse italiana completamente dedicata alle serie tv e punto di riferimento per i professionisti del settore.
Diego Castelli, Channel Manager per le Reti Tematiche a Mediaset e co-fondatore di serialminds.com, Federico Favot, sceneggiatore, headwriter e creative producer, e Marco Chiappa, produttore esecutivo e Head of Bloom Television, raccontano alla giornalista Giulia Cimpanelli il dietro le quinte e le professioni legate alla serialità italiana.
Da grande, voglio fare la tv!
In Boris – Il film, firmato da Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, il delegato di rete, Diego Lopez, interpretato da Antonio Catania, commenta così il suo demansionamento (tale lo considera!) alla sezione cinema: “Dopo la TV c’è il cinema. Dopo il cinema la radio e poi la morte”.
La TV come luogo di elezione professionale, per chi ha doti e ambizioni creative, ma anche per chi ha straordinarie attitudini manageriali e organizzative. Una casa di produzione tv, ad esempio, necessita di entrambe le categorie, lo spiega bene Marco Chiappa, tra i produttori esecutivi di programmi di successo come Masterchef Italia, 4 Ristoranti e Dinner Club. «Le professioni principali sono tantissime, possiamo parlare di due reparti distinti, quello di produzione, che ha la responsabilità di tutta la parte organizzativa, e quello di redazione, che si occupa del contenuto e del casting. E poi bisogna considerare tutte le maestranze, elettricisti, costumisti, macchinisti, montatori. Quest’ultimi, più di tutti, sono una razza rara, perché richiestissimi anche in altri settori, come quello digital ad esempio.»
Tra le figure più ambite, invece, quando si sogna la tv, senza dubbio c’è quella dello sceneggiatore, professione affascinante, oggetto anche di tantissima meta-narrazione filmica, ma molto lontana dall’immagine romantica dello scrittore seduto davanti alla sua Olivetti color grigio fumo con una tazza di caffè bollente. Per Federico Favot il mestiere dello sceneggiatore è tutt’altro che facile e la sceneggiatura non è mai il risultato del lavoro di una singolo persona, piuttosto è il prodotto di molti contributi esterni, di note e aggiustamenti che responsabili editoriali, story editor, producer e broadcaster inviano all’autore. Persino uno sceneggiatore come Joseph L. Mankiewicz disse a un certo punto della sua carriera di sentire il bisogno di diventare regista perché non sopportava più di vedere cosa veniva fatto alle sue sceneggiature.
Bisogna, dunque, essere resilienti, imparare l’arte della pazienza e della mediazione, saper rinunciare all’integrità della propria opera, accettare il compromesso e, in qualche modo, imparare a scomparire quando è il momento.
Passione, perseveranza … e fortuna (tanta)
In Italia, per prepararsi a queste professioni esistono moltissime scuole e corsi di formazione, le più note sono la Scuola Holden a Torino, fondata nel 1994 da Alessandro Baricco, Carlo Feltrinelli, Oscar Farinetti e Andrea Guerra, e il Centro Sperimentale di Cinematografia con sedi a Roma e Milano. Ma ci sono anche le università, come la IULM di Milano e le Scuole civiche, tra tutte la storica Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti. Tuttavia, bisogna dirlo, questi mestieri, più di altri, si imparano soprattutto attraverso la pratica e solo grazie ad una passione smisurata per i linguaggi audiovisivi, il che deve per forza di cose tradursi nella visione assidua di serie, film, reality, documentari, anche di quelli che non ci piacciono, anzi soprattutto di quest’ultimi, come sottolinea Marco Chiappa.
Naturalmente, per diventare un produttore, uno sceneggiatore o un channel manager, non esiste una sola strada. Si possono mandare centinaia di cv come ha fatto Diego Castelli che grazie al suo curriculum e a una rara, quanto specifica, operazione di recruitment, entra a Mediaset come channel manager, la figura responsabile dei palinsesti – «non è l’algoritmo che mette i palinsesti, sono io su Excel» – una professione per cui non esistono scuole, ma che si impara sul campo. «Il mio lavoro non si impara prima, nessuno ti insegna a fare quello che faccio. Oggi coloro che entrano in Mediaset sono giovani laureati provenienti da facoltà umanistiche, come Scienze della comunicazione. Svolgono un periodo di stage che rappresenta un’opportunità importante anche perché, magari non subito, ma se successivamente si apre una posizione ci si ricorda di chi era bravo e ha fatto la differenza. Fosse anche 1 su 100, può capitare. A me è capitato.»
O, nel caso della sceneggiatura, lo suggerisce Favot, si può iniziare dai concorsi o avvicinandosi ad altri media, più accessibili e meno costosi della televisione. «Se dovessi iniziare adesso, partirei dai concorsi, come il premio Solinas, ad esempio, o utilizzerei media come i podcast e YouTube, molto meno costosi, sono un’ottima vetrina, per chi ama scrivere, per mostrare il proprio talento. Il mio approccio, allora, fu di bussare alle case di produzione per chiedere loro di cosa avessero bisogno, accettando, per pochi mesi, di lavorare anche gratis pur di mostrare le mie capacità.»
Chiappa, Favot e Castelli raccontano la straordinarietà delle loro professioni, sospese tra il sogno e la realtà, ma ci mostrano con estrema onestà anche quanto siano difficili. La gavetta è lunga, faticosa, spesso sottopagata, la carriera è un giro sulle montagne russe in un mercato che diventa anno dopo anno sempre più competitivo e che deve rispondere alle aspettative altissime di uno spettatore che ha visto di tutto, abituato alla qualità, innamorato di serie – capolavoro come Gomorra, True Detective, Breaking Bad, uno spettatore preparato ed esigente, che Daniela Cardini non a torto chiama il “tele-cinefilo”.
Eppure, l’invito resta quello di tentare, perché in fondo, come diceva Walt Disney non ci sono sommità invalicabili per un uomo che conosce il segreto di realizzare i sogni. Il segreto è crederci fino in fondo. “In modo coinvolgente e indiscutibile”.
Per guardare il talk è sufficiente registrarsi sul sito di PHYD.