Cinque proposte per combattere il lavoro povero
Avere un lavoro non sempre basta per evitare di trovarsi in una situazione di povertà. Negli ultimi anni, in Italia e non solo, aumentano i cosiddetti working poor, persone che pur dedicando una parte del proprio tempo all’attività lavorativa, non riescono ad avere uno stipendio sufficiente.
Il fenomeno è diffuso ovunque in Europa, ma nel nostro Paese è particolarmente accentuato: i dati pubblicati da Eurostat mostrano che nel 2019 l’11,8% dei lavoratori italiani era considerato povero, contro una media europea del 9,2%. Benché si tratti di un fenomeno piuttosto recente, non è una novità: sempre secondo i dati europei, l’incidenza della povertà lavorativa in Italia nel 2006 era del 9,4% ed è aumentata fino al 12,3% nel 2017.
La pandemia ha contribuito ad acuire il fenomeno. Tanto che il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Andrea Orlando ha scelto di intervenire con la creazione di un gruppo di lavoro – composto da esperti di temi economici, giuridici e industriali – per analizzare le cause di questa situazione e ideare possibili soluzioni. Il risultato di mesi di studio è una relazione con cinque proposte di intervento.
Il lavoro povero
«Prima di tutto, bisogna fare delle precisazioni sulla definizione di povertà lavorativa e sugli indicatori che vengono usati», spiega Silvia Ciucciovino, professoressa ordinaria di Diritto del lavoro all’Università Roma Tre e consigliera esperta presso il Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), che ha preso parte al gruppo di lavoro voluto dal ministro Orlando. «A livello internazionale è considerato lavoratore povero colui che dichiara di aver lavorato un certo numero di mesi (solitamente sette, ndr) ed è parte di un nucleo familiare che ha un reddito equivalente inferiore alla soglia di povertà. Quest’ultima è solitamente pari al 60 per cento del reddito mediano nazionale. Ma questa definizione, che è utile perché permette confronti a livello europeo, non è del tutto soddisfacente. Non include infatti chi lavora per un periodo più breve, cosa frequente in Italia. Il rischio è quello di non cogliere completamente la nozione di lavoro povero».
Secondo Ciucciovino, però, c’è anche un secondo punto debole:
Facendo riferimento al reddito familiare, c’è il dubbio di non considerare adeguatamente il disagio nel mercato del lavoro del secondo percettore di reddito, spesso rappresentato da una donna.
La difficoltà nello stabilire la definizione di “povertà lavorativa” indica che la povertà non può soltanto essere osservata come insufficienza dei salari, ma anche come insieme di vari fattori tra cui il salario orario, i tempi di lavoro e lo stato di famiglia.
Le cause
Le cause della povertà lavorativa sono diverse e la prima è certamente il dumping contrattuale, cioè la possibilità per le aziende di applicare contratti collettivi diversi da quelli principali che, essendo stati definiti da sindacati nuovi e meno rappresentativi, non garantiscono lo stesso livello di protezione di quelli stabiliti dalle maggiori organizzazioni sindacali. «Questo è un fenomeno giovane perché fino ad alcuni anni fa il numero di contratti collettivi censiti era molto inferiore. Attualmente esistono oltre 900 contratti collettivi e questo ha determinato un abbassamento diffuso delle condizioni lavorative», racconta Ciucciovino.
La seconda causa invece non è legata al livello dei salari, ma all’orario lavorativo. Recentemente si è notata a livello nazionale una forte riduzione del numero di ore lavorate pro capite, a dimostrazione che per combattere la povertà lavorativa sono necessari interventi su più fronti: introdurre un salario minimo può risultare inefficace se poi diminuiscono le ore di lavoro.
La professoressa Ciucciovino evidenzia il fenomeno del tempo parziale involontario. «Lo notiamo con grande frequenza. Si verifica quando un lavoratore vorrebbe lavorare più ore di quelle definite dal suo contratto. Correggere questo con una legge però non è fattibile perché è impossibile imporre un monte orario minimo per tutti».
Il totale delle ore di lavoro dipende soprattutto dalla domanda di lavoro generata dal settore specifico e dall’andamento del sistema economico: due aspetti su cui è estremamente difficile agire a livello politico o governativo. «Storicamente, a rispondere a queste asimmetrie, c’erano i sindacati, ma ora stanno attraversando una fase di crisi che ne ha indebolito la forza».
Ci sono poi altri elementi che intensificano il problema della povertà lavorativa come la crescente polarizzazione del mercato del lavoro, che fatica a retribuire in modo sufficiente i lavoratori non specializzati, il livello stagnante dei salari e infine una diffusa instabilità delle carriere.
Le proposte
Come sottolineato anche nella relazione finale del gruppo di lavoro istituito dal Ministero del Lavoro, soltanto una strategia con molteplici strumenti può efficacemente contrastare le differenti cause della povertà lavorativa.
La prima proposta tra quelle elaborate desidera garantire adeguati livelli minimi dei salari, che possono essere raggiunti in due modi: tramite l’estensione dell’applicazione dei contratti collettivi principali a tutti i lavoratori del settore oppure introducendo un salario minimo per legge. Tuttavia, entrambe presentano delle difficoltà e quindi il gruppo di lavoro ha proposto una terza opzione che consenta una sperimentazione di un salario minimo per legge o di griglie salariali basate sui contratti collettivi in un numero limitato di settori, dove intervenire è più urgente.
«Estendere i contratti collettivi principali a tutti i lavoratori è l’opzione più complicata, ma aiuta a salvaguardare il sistema delle relazioni industriali che, anche se ora è un po’ in difficoltà, è pur sempre un presidio fondamentale per le tutele dei lavoratori. Tramite una legge sulla misura della rappresentatività, si puntellerebbe a livello legislativo la forza delle relazioni industriali e dei prodotti che è in grado di produrre, cioè i contratti», spiega Ciucciovino. «Inserire invece un salario minimo generalizzato per legge sarebbe molto più semplice, ma rischierebbe di spiazzare il sistema delle relazioni industriali, poiché imponendo dall’alto una legge si potrebbe ridurre il peso dei sindacati. Inoltre potrebbe non rispecchiare le particolarità dei singoli settori, senza dimenticare che la contrattazione delle condizioni di lavoro non riguarda solo i livelli salariali, ma anche altri aspetti. Per questo abbiamo suggerito al Ministro Orlando un mix tra le due opzioni».
La seconda proposta riguarda invece l’introduzione di un sostegno economico al reddito, che era poi uno dei motivi che ha portato alla creazione del Bonus Renzi da 80 euro (oggi aumentati a 100). «L’importante è che l’introduzione di un supporto al reddito sia accompagnata da altre misure come il salario minimo. Se così non fosse, il rischio è di avvantaggiare l’impresa a pagare salari bassi perché comunque poi interviene lo Stato a integrare il reddito. Sarebbe un effetto perverso perché deresponsabilizzerebbe l’impresa invece che responsabilizzarla», conclude la professoressa Ciucciovino.
Le altre proposte presenti nella relazione propongono una migliore raccolta dei dati economici e incentivano il rispetto delle norme tramite una crescita di consapevolezza delle norme tra i lavoratori e le imprese.
L’iter della relazione ora dipende dalla politica che, se accetterà le proposte, aprirà una seconda fase di approfondimento e di sviluppo tecnico della proposta finale.