Quanto lavorano i cittadini europei?
Nel nostro Paese, si lavora in media 37 ore alla settimana, leggermente al di sotto della media UE, pari a 38,1. Sono 4 i Paesi membri in cui si superano le 40 ore: primo tra tutti la Grecia, con una media di 41,7 ore, seguita da Bulgaria (40,4), Polonia (40,3) e Repubblica Ceca (40,2). Mentre le cifre più basse sono registrate dai Paesi dell’Europa settentrionale. Soprattutto dai Paesi Bassi, dove la media settimanale nel 2020 era di 30,6 ore. Lo attestano le rilevazioni di Openpolis su dati Eurostat (Febbraio 2022).
«Ad oggi in Europa è ancora scarsa l’armonizzazione in questo senso, e in molti Stati si lavora ben oltre i limiti stabiliti», scrivono gli esperti. «Sotto questo aspetto l’UE è caratterizzata da ampi divari tra gli Stati membri, e sono ancora molti i cittadini che lavorano più di 48 ore alla settimana, limite previsto dalla prima convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) che, già nel 1919, stabiliva un massimo di 8 ore giornaliere o un massimo di 48 settimanali».
Lavorare tanto fa male?
«Dipende dal lavoro, dipende per quanto tempo, dipende dalla motivazione che ci guida», commenta Alessandro Rimassa, fondatore di Radical HR e autore di Company Culture (Egea, 2020). «Mi spiego: se fai un lavoro intellettuale e per un paio di settimane lavori 10/11 ore al giorno, perché motivato da un obiettivo da raggiungere, non succede nulla di grave. Ma se quelle 10 o 11 ore aumentano e quel periodo di un paio di settimane diventa un mese, di colpo inizi a rendere meno e a bruciare tempo ed energie. E in più: lavorare tanto toglie spazio ad altro che arricchisce la nostra vita e che poi ci fa rendere meglio sul lavoro».
Non conta quanto, ma come
La regolamentazione in questo senso è considerata fondamentale per garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori e imporre dei limiti al tempo trascorso sul posto di lavoro è stata una delle principali conquiste dei movimenti operai nel corso del Novecento. «Credo che per garantire il benessere dei lavoratori serva aiutarli ad avere ore di lavoro di qualità», chiarisce Rimassa. «Non è solo una questione di quantità, quindi, ma di come si fanno lavorare le persone: lavoro per obiettivi, feedback continui, trasparenza delle informazioni. Ci servono persone motivate e partecipi, non automi, altrimenti anche se abbassassimo il numero di ore a 30 avremmo comunque persone che lavorano male e che hanno un benessere che peggiora».
Non è solo una questione di quantità. Ci servono persone motivate e partecipi.
E i quattro giorni alla settimana?
Esistono numerosi indicatori per misurare le condizioni lavorative, considerando ad esempio i dati del reddito medio, delle misure per garantire un salario minimo, della sicurezza sul posto di lavoro e delle prospettive pensionistiche. «Oggi esistono diversi esperimenti, da Paesi o settori che stanno sperimentando la settimana corta di 4 giorni a continue ricerche sugli effetti, in termini di benessere e produttività, di modi di lavorare differenti. Ma, appunto, stiamo sperimentando, e avviene anche in Italia: alcune grandi aziende fanno il venerdì corto (9-13) ormai tutto l’anno, con soddisfazione dei propri lavoratori e produttività costante», chiarisce l’esperto.
Oggi alcuni strizzano l’occhio alla settimana corta, sperando di riuscire finalmente ad avere del tempo in più da dedicare a se stessi e ai familiari, alla lettura di quel libro che giace impolverato sul comodino, per fare quel viaggio a lungo rimandato. O semplicemente per non fare nulla.
Nel 1930 l’economista inglese John Maynard Keynes predisse che, nell’arco di 100 anni, l’evoluzione delle tecnologie e l’aumento della produttività ci avrebbero consentito di lavorare non più di 15 ore alla settimana. A quel punto, allora, il principale problema sociale che nazioni come Gran Bretagna e Stati Uniti avrebbero dovuto affrontare sarebbe stata la noia. Manca meno di un decennio al 2030: è vero che possiamo produrre di più, con minore sforzo, ma è abbastanza evidente che Keynes avesse torto.
«Il punto è che dobbiamo andare in una direzione di new ways of working, al plurale, offrendo cioè più possibilità alle persone e alle aziende e facendo sì che ci sia il giusto match. C’è chi per un periodo vuole lavorare molto di più, per poi avere periodi di decompressione o, perché no, per poi avere tempo da dedicare ai propri figli negli anni successivi: perché dovremmo impedirglielo? Continuiamo a ragionare con una logica del lavoro fordista quando siamo nella fase conclusiva della IV Rivoluzione Industriale: questo è il decennio della People Transformation, dobbiamo imparare ad ascoltare le persone e a offrire percorsi di lavoro flessibili, adattabili, personalizzabili. Anche avendo il coraggio di dire che, forse, i contratti collettivi così come li abbiamo conosciuti e utilizzati possono aver concluso il proprio mandato».
Questo è il decennio della People Transformation, dobbiamo imparare ad ascoltare le persone e a offrire percorsi di lavoro flessibili, adattabili, personalizzabili.
La pandemia ha ridotto i salari
Un altro degli aspetti da considerare è quanto guadagnano in media i cittadini. In tutto il continente europeo, negli ultimi 30 anni i salari medi annuali sono andati progressivamente aumentando. Fa eccezione l’Italia, dove nel 2020 si guadagnava meno che nel 1990. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, in tutto il mondo la pandemia ha messo alla prova i lavoratori e ne ha peggiorato le condizioni di vita. Anche in Europa molti posti di lavoro sono andati perduti e il numero di ore lavorate in media ha registrato un calo, soprattutto per quanto riguarda le professioni meno retribuite. Mediamente, nel 2020, la massa salariale, con cui si intende il totale dei salari lordi non standardizzati, è infatti diminuita rispetto all’anno precedente. Nel 2020, rilevano ancora gli esperti di Openpolis, nel mezzo della pandemia, il salario medio annuale di un cittadino lussemburghese era il doppio di quello di un greco, e quasi tre volte quello di uno slovacco. In generale, ad avere i salari medi più alti sono i Paesi dell’Europa nord occidentale (Lussemburgo, Paesi Bassi, Belgio, Danimarca), mentre quelli più bassi li registrano Stati membri dell’Europa centrale (Slovacchia e Ungheria) e meridionale (Grecia e Portogallo).
«Il tema dei salari è enorme, anche perché con l’inflazione che è ripartita l’effetto sarà ancora maggiore», osserva Rimassa. «Il paradosso è che stiamo dividendo sempre più le fasce più forti da quelle più deboli: i “talenti” guadagnano di più, alcune professioni specifiche – come i software developer – vedono le proprie retribuzioni schizzare in alto, molti altri (troppi) perdono potere d’acquisto. Qui serve un intervento specifico a livello italiano e non di settore, ma generalizzato: alzare i salari minimi e alzare in egual modo quelli medi. Poi molti puntano a un salario minimo europeo, ma sinceramente la vedo come cosa distante, non direttamente applicabile nei diversi Paesi e nemmeno per forza sensata viste le disparità di costo della vita tra i diversi membri dell’Unione».
Great Resignation
I numeri che caratterizzano il fenomeno delle “grandi dimissioni” è impressionante: tanti giovani (ma non solo), non sopportano più il modo con cui abbiamo declinato il lavoro nel mondo contemporaneo e fanno per sé scelte discordanti. Scelte che non sono necessariamente motivate dal desiderio di contrastare il modello genitoriale, per spirito di protesta. Ma dal bisogno di anteporre “altri” valori (ecologia, economia, tempo libero, cura di sé), al miraggio di brillanti carriere.
«Le grandi dimissioni sono il tema del momento, confermato dai numeri: le persone non lasciano il lavoro, lasciano quel lavoro, quel manager, quell’azienda», conclude infine l’esperto. «Non più per altro, ma per un migliore Life Balance. Ed è qui che sta il punto: dobbiamo superare il concetto di work-life balance, come se lavoro e vita fossero quasi in conflitto tra loro, e comprendere che esiste un bilanciamento di diversi elementi, tra cui il lavoro, che fanno parte della nostra vita. La sfida per le aziende sta qui: nell’ascolto dei bisogni delle persone e nella costruzione di new ways of working capaci di mantenere la relazione con le proprie persone».