Dal Freedom Dividend di Andrew Yang in poi, ecco cosa si dice nel dibattito sul reddito universale nel mondo
Se ne parla da tempo anche in Italia, tant’è che il reddito di cittadinanza voluto dal Movimento Cinque Stelle ne è una delle implementazioni su piccola scala. Fatto sta che il tema del reddito universale, legato al rischio della cosiddetta “disoccupazione tecnologica”, è entrato a pieno titolo nel dibattito pubblico, al punto da aver iniziato a plasmare anche le campagne elettorali di candidati politici in diversi Paesi. Nel contesto americano, l’esempio più recente è la proposta di Andrew Yang, imprenditore e filantropo, ritiratosi dalla corsa per le primarie democratiche, già fondatore di Venture for America, un’organizzazione no profit tesa a creare posti di lavoro nelle città che più stanno faticando a riprendersi dopo la recessione dei primi anni Duemila.
La proposta di Yang si basa su un assunto semplice: già oggi circa 40 milioni di americani vivono sotto la soglia di povertà, un trend che sarà accentuato in futuro dalla perdita di posti di lavoro per via dei crescenti livelli di automazione nelle industrie (McKinsey prevede che un terzo dei lavoratori negli Usa perderanno il lavoro entro il 2030). «I posti di lavoro “buoni” stanno diventando sempre più scarsi e gli americani stanno già lavorando sempre di più per avere sempre meno», dice Yang. Perciò occorre assicurare alle persone un’entrata sicura che sia slegata dai vincoli contrattuali e dalle capacità lavorative. Ecco dunque la soluzione: un reddito universale di base di 1.000 dollari al mese per ciascun americano sopra i 18 anni, indipendente dalla propria condizione lavorativa e da qualsiasi altro fattore. «Questo consentirebbe a tutti gli americani di pagare le bollette, frequentare la scuola, avviare attività commerciali, essere più liberi e creativi, rimanere in salute, spostarsi per lavoro, trascorrere del tempo con i propri figli, prendersi cura dei propri cari, e avere una possibilità vera per il proprio futuro».
Secondo Yang, che ha reso il principio dello universal basic income (da lui denominato “Freedom Dividend”) il proprio cavallo di battaglia in campagna elettorale, la garanzia di un tale reddito porterebbe ad una crescita economica compresa tra i 12,56 e i 13,10 punti percentuali (pari cioè a 2,5 triliardi di dollari entro il 2025) e aumenterebbe la forza lavoro tra 4,5 e 4,7 milioni di unità. «Mettere il denaro direttamente nelle mani delle persone, assicurandosi che lì rimanga, darebbe un impulso continuo e un sostegno alla crescita del mercato del lavoro e dell’economia», ha puntualizzato il candidato democratico.
Nell’arco di due anni, i beneficiari del reddito universale si sono dichiarati «più felici e meno preoccupati», malgrado i livelli di occupazione nel Paese non siano cresciuti
L’idea è certamente affascinante, tant’è che in diverse parti del mondo si è iniziato ad accarezzarla in vari modi. Per restare più vicino a noi, ad esempio, la Finlandia ha sperimentato un principio simile per due anni (primo Paese in Europa a farlo): tra gennaio 2017 e dicembre 2018, a 2000 disoccupati finlandesi è stato corrisposto un pagamento mensile di 560 euro. L’obiettivo dell’esperimento, nelle intenzioni del governo, era capire se l’istituzione di una “rete di protezione” economica per queste persone li avrebbe aiutati a trovare lavoro, o comunque li avrebbe sostenuti nel caso in cui si fossero trovati a lavorare soltanto nel circuito instabile dei lavori offerti dalla gig economy. Risultato: nell’arco di due anni, i beneficiari del reddito universale si sono dichiarati «più felici e meno preoccupati», malgrado i livelli di occupazione nel Paese non siano cresciuti. Così la sperimentazione è rimasta tale, senza tradursi in un nuovo paradigma su larga scala. Sulla scena internazionale, che aveva osservato con interesse il caso, intanto, si sono iniziati a porre i primi dubbi sull’efficacia di questi schemi: davvero un reddito universale sarebbe capace di rivoluzionare il sistema di previdenza sociale, dando una scossa definitiva alla stratificazione della società e mettendo ciascuno in condizione di contribuire attivamente al benessere collettivo? Oppure si tratta solo di uno spreco di risorse?
Malgrado i dubbi, come dicevamo, in diversi Paesi e contesti si è dato il via a sperimentazioni di diversa durata e calibro: in un villaggio del Kenya, ad esempio, si è deciso di dare 22 dollari al mese a tutti gli adulti per 12 anni, fino al 2028. Mentre ad Utrecht, in Olanda, si sono recentemente poste le basi di una sperimentazione chiamata “Weten Wat Werkt” (capire ciò che funziona), che si è conclusa a ottobre. I risultati prodotti finora non hanno propriamente cambiato le fondamenta dell’assetto economico e sociale, ma è pur sempre vero che nella maggior parte dei casi si tratta di soluzioni spurie, dove il reddito universale è stato concesso soltanto a una frazione di popolazione più svantaggiata rispetto ad altri (ad esempio i disoccupati). Altre possibili varianti, ad esempio, comprendono quella dei “servizi universali di base”, dove invece di ricevere un reddito, i cittadini possono usufruire di una serie di benefit, come l’istruzione, la sanità e i trasporti, in maniera totalmente gratuita.
In Italia, a distanza di mesi dall’avvio dell’erogazione, non si sa quanti abbiano effettivamente trovato lavoro
In Italia, il lancio del reddito di cittadinanza del Movimento Cinque Stelle durante il governo Conte ha dato risultati controversi. Intanto perché l’importo medio erogato è rimasto basso, 484,44 euro a famiglia (su una platea di quasi 2,5 milioni di persone, sono stati spesi oltre 3 miliardi), ma soprattutto perché, posto che la seconda fase della misura è quella di trovare un’occupazione ai percettori, a distanza di mesi dall’avvio dell’erogazione, non si sa quanti abbiano effettivamente trovato lavoro. In particolare, su un totale quantificato in 700mila percettori occupabili, le statistiche mai confermate dal ministero del Lavoro variano di molto, da meno di 1.000 a 18mila occupati (il 3,63%).
In generale, i detrattori del principio del reddito universale sostengono che la misura si focalizzi troppo sulla ricchezza e potere d’acquisto individuale delle persone (più precisamente, sulla loro mancanza), senza invece agire per impedire alle aziende di sprecare risorse producendo molto più di quanto la gente abbia realmente bisogno, e al contempo sovraffaticando i propri impiegati. L’economista Grace Blakely in questo senso ha puntualizzato come «senza delle fondamentali riforme strutturali al nostro sistema economico, il reddito universale sarà soltanto un cerotto messo a tappezzare le spaccature». Un altro punto che viene normalmente sollevato, inoltre, ha a che fare con l’inflazione, che potrebbe salire irrimediabilmente a causa dell’aumento della richiesta di beni e servizi. Altri esperti, come il filosofo francese Bernard Stiegler, pur senza toccare direttamente il tema del reddito universale, hanno riconosciuto la crisi del sistema fordista e keynesiano del lavoro, sottolineando la generale necessità di dare vita a nuovi modelli che prevedano una remunerazione al di fuori dell’impiego. Difficile prevedere quale formula potrebbe davvero funzionare, nel lungo periodo. Ma ciò che è certo è che, considerando che l’idea stessa di reddito universale non è nuova, bensì fu descritta già più di 500 anni fa da Tommaso Moro nella sua opera L’Utopia, sicuramente il dibattito sul tema è tutt’altro che esaurito.