Riconoscere i talenti migranti: una ricchezza per il Paese
Dottori, insegnanti, artisti: tra i 5mila rifugiati afghani giunti in Italia quest’anno è presente ogni genere di profilo professionale. Valorizzare i talenti di chi arriva in Italia fuggendo da guerre e persecuzioni è un dovere, oltre che un’enorme ricchezza per il nostro Paese. Ma il modo per farlo non risulta sempre semplice.
«A volte i loro titoli non vengono prontamente riconosciuti dal sistema italiano, ma hanno grandi competenze e talento: per questo vanno tenuti in considerazione», sostiene Francesco Reale, Segretario Generale di Fondazione Adecco per le Pari Opportunità. I rifugiati sono «persone che spesso si sono trovate ad affrontare situazioni di pericolo durante la traversata per arrivare fin qui e quindi sono abituate a fronteggiare l’imprevisto e a gestire la pressione, ad esempio».
Il riconoscimento dei titoli
A occuparsi del riconoscimento dei titoli di studio stranieri in Italia c’è il Cimea, il Centro d’Informazione sulla Mobilità e le Equivalenze Accademiche, che porta avanti il progetto dello European Qualifications Passport for Refugees (Eqpr). Secondo la Convenzione di Lisbona, diventata legge italiana l’11 luglio del 2002, il titolo estero può diventare valido anche in Italia e nell’Unione Europea seguendo una determinata valutazione del riconoscimento in ambito accademico, non accademico o professionale.
La comparabilità del titolo è valutabile attraverso specifiche tabelle e, anche in caso di documentazione parziale o mancante, il Cimea ha promosso e attivato il Coordinamento Nazionale sulla Valutazione delle Qualifiche dei Rifugiati (Cnvqr), una rete informale di esperti in ambito amministrativo operanti all’interno del settore dell’istruzione e della formazione superiore che si occupano del riconoscimento delle qualifiche nei casi più problematici. Nel 2017 il Cimea ha attivato la procedura del Pass Accademico delle Qualifiche dei Rifugiati che, attraverso lo sviluppo di una procedura innovativa di riconoscimento, consente di valutare le qualifiche dei titolari di protezione internazionale.
A volte i loro titoli non vengono riconosciuti dal sistema italiano, ma hanno grandi competenze: per questo vanno tenuti in considerazione.
Francesco Paolo Reale, Segretario Generale di Fondazione Adecco per le Pari Opportunità
Il ruolo delle università
In ambito accademico, le iniziative per favorire una maggiore integrazione di richiedenti asilo e rifugiati sono diversificate. L’anno scorso, ad esempio, 43 atenei italiani hanno aderito al Manifesto dell’Università Inclusiva, lanciato dall’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, per favorire l’accesso dei titolari di protezione internazionale all’istruzione superiore e promuovere l’integrazione sociale e la partecipazione attiva alla vita accademica in Italia.
Poi c’è il progetto Uni.co.re, University Corridors for Refugee. Partito nel 2019, finora ha visto la partecipazione di 28 università che hanno collettivamente messo a disposizione negli ultimi tre anni oltre 70 borse di studio per i vincitori, rifugiati provenienti soprattutto da Eritrea, Somalia, Sudan, Sud Sudan e Repubblica Democratica del Congo. Grazie ai partner del progetto, tra cui il Ministero degli Affari Esteri, Caritas Italiana, Diaconia Valdese, il Centro Astalli, Gandhi Charity, e a un’ampia rete di partner locali, gli studenti riceveranno un sostegno adeguato per portare a termine gli studi e integrarsi nella vita accademica e sociale.
Il lavoro e le aziende
L’integrazione però non passa solo dai titoli, ma anche dal lavoro. Su questo fronte la Fondazione Adecco è in prima linea, come dimostra il premio “Welcome, Working for Refugee Integration” di Unhcr Italia, dedicato a tutte le imprese che si sono impegnate nel favorire l’inserimento professionale di persone rifugiate come il Gruppo Adecco. «Riteniamo assolutamente importante il fattore della diversity & inclusion e su questo aspetto, infatti, lavoriamo costantemente», sottolinea Reale. «Noi agiamo con le aziende e con le organizzazioni del terzo settore, creiamo le condizioni e favoriamo il dialogo tra mondo profit e non profit, cercando al contempo di favorire l’ingresso dei rifugiati nel mondo del lavoro italiano. Da un lato loro hanno bisogno di essere formati all’inserimento in un’organizzazione, visto che spesso parliamo di giovanissimi alla prima esperienza lavorativa, dall’altro sosteniamo le imprese a favorire l’inclusione, un risultato spesso non facile da raggiungere».
Da un lato loro hanno bisogno di essere formati alle regole del nostro Paese, visto che spesso parliamo di giovanissimi alla prima esperienza lavorativa, dall’altro sosteniamo le imprese a favorire l’integrazione.
Francesco Paolo Reale
Tra i progetti portati avanti, c’è ad esempio «quello con il Comune di Milano e il Mercato centrale, che ha permesso a chi sapeva maneggiare il pesce, merce particolarmente costosa, di trovare posto come sfilettatore. Oggi il mestiere è quasi del tutto scomparso e quindi trovare queste competenze è fondamentale», spiega il Segretario della Fondazione. Un progetto di inclusione simile riguarda anche Uniqlo che ha assunto 7 rifugiati a Milano. Ma le collaborazioni si estendono anche ad aziende del calibro di Nespresso, Decathlon, Carrefour.
Una delle questioni centrali per cui la Fondazione Adecco si sta adoperando riguarda l’integrazione delle donne. «Molte di loro necessitano di trovare un lavoro che le aiuti a sostenere la famiglia, compito che spesso devono portare avanti da sole. Serve studiare un piano di empowerment», dice Reale.
Il valore delle competenze
In molti casi i titoli di studio non sono tutto. «Molti rifugiati non hanno attestati validi in Italia e serve spesso, perciò, un esame delle competenze», spiega Reale, ricordando il caso di un rifugiato proveniente dalla Germania che non aveva titoli validi in Italia. «Le sue competenze però erano più che valide e infatti lo abbiamo segnalato a Modis, azienda tecnologica leader di settore, che lo ha assunto».
Andare oltre il curriculum scritto in alcuni casi è fondamentale. «Crediamo che spesso situazioni più aperte ed inclusive aiutino a far emergere le capacità di ciascuno», spiega Reale. «Sono proprio queste il vero motore per il mondo del lavoro di domani: non basta più guardare i titoli, visto che spesso ci sono persone che hanno un background di livello, che può essere paragonabile o superiore a quello di un neolaureato’. Serve un cambio di mentalità».