Il buon robot pagherà le tasse
Nel 2014 ha progettato un robot barman Makr Shakr. Lui è Carlo Ratti, torinese, uno dei più noti e influenti architetti italiani nel mondo. Insegna al Massachusetts Institute of Technology di Boston, USA, dove dirige il MIT Senseable City Lab. Lo abbiamo intercettato per chiedergli un primo bilancio di quell’esperienza avveniristica.
Com’è stato accolto il suo barman artificiale?
Makr Shakr è nato nel 2014 come un’istallazione per Google I/O, l’annuale conferenza per sviluppatori di San Francisco. Il progetto ha fin da subito suscitato grande attenzione e curiosità. Nei mesi seguenti abbiamo ricevuto molte richieste: persone che chiedevano se potevano comprare la macchina o affittarla per una festa di compleanno o un matrimonio. Tutto ciò ci ha portati a rendere Makr Shakr una startup, che sta crescendo vorticosamente. La Royal Caribbean è stata il primo cliente della Makr Shakr, e oggi i bar robotizzati sono installati in modo permanente a bordo di tutte le loro nuove navi da crociera. In parallelo, da ormai tre anni l’unità mobile Makr Shakr on the Road è in giro per il mondo senza soste, l’anno scorso è finita anche in mezzo a un concerto di Rihanna. Insomma, il progetto sta andando molto bene. E ci tengo a dire che, se da un lato non abbiamo fatto perdere il posto di lavoro a nessun barman, dall’altro abbiamo dato lavoro a qualche decina di giovani ingegneri a Torino.
Makr Shakr, il mio robot-barista, è nato nel 2014. Non ha fatto perdere posti di lavoro, anzi ne ha creati di nuovi.
Il robot come i processi di automazione sottraggono lavoro. È la paura di tanti. Lei ha proposto una tassa sui robot per compensare chi perde il lavoro. Come potrebbe funzionare?
Pensiamo ai tassisti italiani e alle automobili a guida autonoma. La tecnologia per le auto senza guidatore è quasi pronta, tra pochi anni i tassisti avranno perso il loro posto di lavoro. E con loro decine di milioni di persone in giro per il mondo che si guadagnano da vivere guidando un autoveicolo. Come fare quindi? Le parole chiave intorno alle quali possiamo riannodare una discussione sono due: “transizione” e “ridistribuzione”. “Transizione”, per poter gestire gli sconvolgimenti tecnologici odierni senza esserne travolti. Per aiutare chi ha perso un lavoro oggi a trovarne un altro domani, e per educare le nuove generazioni alle professioni del futuro. “Ridistribuzione”, perché è fondamentale capire a chi andranno i vantaggi di questo nuovo mondo. A chi ha investito capitali? O a chi è rimasto disoccupato? Un’idea è proprio quella di far pagare le tasse ai robot o alle nuove intelligenze artificiali. Vuol dire semplicemente tassare il capitale e trasferire reddito a chi magari ha perso il proprio posto di lavoro. Una proposta sfortunatamente bocciata dal Parlamento Europeo pochi mesi fa, ma che ha subito dopo trovato un sostenitore inatteso in Bill Gates.
Si può dire che l’avvento dei robot costringerà a cambiare il concetto di lavoro?
Penso proprio di sì. Ma questo non rappresenterà necessariamente una cosa negativa. Pensiamo ad esempio alla guida autonoma: in un futuro non troppo lontano, mentre la nostra auto ci guiderà da qualche parte, potremmo dedicarci ad altre attività per cui oggi non abbiamo molto tempo, quali leggere, dormire, giocare, eccetera. L’automobile come estensione delle nostre case, come nel visionario progetto degli anni Settanta di Mario Bellini, Kar-a-sutra.
L’automazione rischia di allargare ancor più il gap tra Paesi ricchi e Paesi poveri? Gli uni possono liberare intelligenze per lo sviluppo, gli altri saranno invece legati a lavori materiali…
Non solo, basta vedere il cosiddetto fenomeno del leapfrogging (un processo di cambiamento rapido, ndr). L’Africa ce ne sta dando molti esempi: balzi in avanti che cambiano le regole del gioco. Per esempio, l’uso dei telefonini per effettuare acquisti o movimenti di denaro è più diffuso in certe capitali africane che non in Europa. Oppure guardiamo agli incubatori di Nairobi, cresciuti attorno alla non profit tecnologica Ushahidi…