Stefano Micelli: Un po’ umanista, un po’ programmatore: ecco come sarà l’artigiano del futuro
Alzi la mano chi pensava, fino a qualche anno fa, che scrutando nella boccia di vetro del futuro dell’economia ci avremmo trovato l’artigianato. O che sarebbero stati soprattutto i giovani a prendere le redini del nostro tradizionale saper fare, innovandone forma e sostanza. Stefano Micelli è uno di quelli che possono alzare la mano. Economista, professore all’università Cà Foscari di Venezia, Micelli nel 2011, alla vigilia del secondo tempo della crisi, ha scritto un saggio intitolato per l’appunto “Futuro Artigiano” (Ed. Marsilio) e quel saggio è stata una piccola rivoluzione, al punto da essere stato il primo libro ad aver vinto, nel 2014, il Compasso d’Oro, il più importante premio dedicato al design italiano: «Ci sono imprenditori che mi hanno detto di aver capito, finalmente, quel che stavano facendo – ricorda con un pizzico d’orgoglio -, funzionari di banca che si sono reinventati artigiani e adesso vendono i loro prodotti in tutto il mondo. Nel nostro piccolo abbiamo iniziato a cambiare la percezione di un mondo che, fino ad allora, era raccontato per stereotipi. E ne abbiamo mostrato fascino e potenziale innovativo».
Cosa intende quando dice che l’artigianato era raccontato per stereotipi?
Quando parliamo di saper fare artigiano di solito oscilliamo tra due estremi da evitare: da un lato l’idea che artigiano significa grossolano e rudimentale. La bomba artigianale, per intenderci, quella che non scoppia. Oppure parliamo di qualcosa che tange l’arte, che ha fattura pregiatissima e costi spropositati, tale da essere destinato solamente a élite economiche. In entrambi i casi facciamo torto a un saper fare che è connaturato al nostro fare impresa. Un saper fare inclusivo, aperto e democratico su cui abbiamo costruito il concetto stesso di qualità italiana.
Cosa vuol dire qualità italiana, nella sua visione dell’artigianato?
È un attributo che ha due risvolti. Il primo è un modo peculiare di fare impresa, quello dell’industria su misura. Noi italiani abbiamo sempre avuto problemi con le serializzazioni, il meglio lo abbiamo dato con le personalizzazioni. Sia nel Made in Italy, come moda e design, così come nella meccanica, vale nella piccola così come nella grande impresa.
Il secondo risvolto?
È un’idea diversa di lavoro, fondamentale per chi produce per cose diverse e su misura. È un lavoro attivo e non passivo, un lavoro consapevole che trova i suoi fondamenti culturali nella passione per la creatività, per l’ingegno, per il ben fatto.
Una passione che coinvolge anche i giovani, come testimonia la nascita di un vero e proprio movimento transnazionale di maker. Domanda: è un’idea di lavoro che diventerà egemone o che sarà fisiologicamente destinata a rimanere di nicchia?
Dobbiamo intenderci sul tipo di scenario che prefiguriamo. In alcuni settori questi fenomeni sono già realtà. Pensiamo ai produttori di vino e di birra: produco meno, personalizzo, lavoro in modo diverso, guadagno di più. Ci sono tante piccole imprese, in tanti settori, che già presidiano i mercati con questa logica. Le medie imprese, pure, hanno cambiato le regole organizzative e di management e in parte hanno sussunto questo peculiare modo di lavorare. Non mi aspetto un esercito di maker alla conquista del mondo. Mi aspetto micro imprese in alcuni settori e medie grandi imprese in altre che sposino questo nuovo paradigma.
Non possiamo avere tecnici senza sensibilità per la nostra tradizione culturale. E non possiamo accettare classi dirigenti che non apprezzano e non conoscono il lavoro manuale.
Ok le imprese, ma gli addetti? Quanto la scuola deve ancora fare per agganciarsi ai paradigmi del nuovo lavoro artigiano?
C’è molto da fare. L’obiettivo, per un Paese come l’Italia, è provare a creare ponti plausibili tra cultura umanistica e cultura tecnica. Non possiamo avere tecnici senza sensibilità per la nostra tradizione culturale. E non possiamo accettare classi dirigenti che non apprezzano e non conoscono i saperi tecnici e il lavoro manuale. Il vero problema della nostra economia è più strutturato ed è l’assenza di un'educazione tecnica superiore. Noi abbiamo un problema molto specifico nel formare profili che abbiano una cultura tecnologica avanzata. All’estero ci sono scuole tecniche superiori come quelle svedesi che contano quasi 800mila studenti. Gli istituti tecnici superiori italiani hanno solo 10mila studenti. Non sono ancora penetrati nella nostra cultura popolare.
In parallelo ai discorsi sul nuovo artigianato sta emergendo una speculare diatriba sui robot e più in generare sull'automazione che ci ruberà il lavoro. Condivide le paure degli apocalittici?
Chi ha studiato la storia dell’evoluzione tecnologica è consapevole che per trarre beneficio da grandi innovazioni c’è bisogno di competenze diffuse, di tante persone in grado di addomesticare le potenzialità che questi strumenti ci danno. Noi dobbiamo fare leva sul capitale culturale e storico che abbiamo alle spalle. Ma dobbiamo innestare nuovi elementi: il codice digitale, ad esempio, che i nostri studenti devono saper maneggiare. Solo così, aggiungendo saperi e competenze nuove, facciamo continuare la tradizione del Made in Italy.
Un po’ umanisti, un po’ programmatori, insomma…
Noi dobbiamo pensare che le tecnologie innovative non sono alla mercè di pochi, ma saranno qualcosa di ubiquo, democratico, alla portata di tutti. Oggi – e qui focalizzo l’attenzione sulle piccole imprese come architrave di un nuovo sviluppo economico e nuova coesione sociale – bisogna immaginare e reinventare le imprese come un nuovo tessuto connettivo territoriale, che tiene insieme artigiani, istituzioni culturali, scuole per trarre il massimo beneficio da quel legame che dobbiamo consolidare tra cultura e manifattura. Se il Made in Italy ha successo è perché c’è un legame con una cultura straordinaria. Con le nuove tecnologie a basso costo si può rinnovare il legame tra impresa e cultura. Ed è solo così che si può dare nuovo valore al Made in Italy.