Stefano Scarpetta: Nuove tecnologie? Il vero rischio è la disuguaglianza, non la disoccupazione


«Robot, rivoluzione digitale, automazione e intelligenza artificiale produrranno enorme disoccupazione? No, cambieranno, e in parte stanno già cambiando, il mercato del lavoro». Ad esserne convinto è Stefano Scarpetta, l'economista che guida il dipartimento delle politiche sociali e del lavoro dell'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, assemblea consultiva che si occupa di studi economici per i Paesi membri aventi tutti in comune un sistema di governo di tipo democratico ed un'economia di mercato). «I dati che abbiamo raccolto ci indicano chiaramente che stiamo assistendo ad una polarizzazione del lavoro. Ed è un dato comune a tutti i Paesi», sottolinea il direttore.

[legacy-picture caption=”Stefano Scarpetta” image=”71e22fd4-e90b-47e1-b263-ccf2649f3094″ align=”right”]

Oggi la tecnologia è vista come il principale nemico dell’occupazione. È così?
È vero che molti studi tendono a identificare la tecnologia come causa della disoccupazione crescente. Secondo i ricercatori di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, ad esempio il 47% dei posti di lavoro nel mercato americano nei prossimi vent’anni potrebbe sparire a causa dell’automazione. Noi siamo partiti dalle stesse previsioni di Frey e Osborne, ma abbiamo mappato le mansioni a rischio con i singoli lavoratori e non con le professioni, come fatto da loro. Dato che all’interno di ogni professione le mansioni svolte dai lavoratori variano enormemente, le nostre stime suggeriscono che la percentuale di posti di lavoro a rischio è dell’ordine dell’8-10%, anche se un altro 20-25% dei posti di lavoro non sparirà, ma subirà profondi cambiamenti nelle mansioni e quindi richiederà un grosso sforzo da parte dei lavoratori nella loro riqualificazione

Lei infatti non ritiene che ci sia il rischio di una disoccupazione galoppante. Perché?
Il vero punto non è quali lavori emergeranno e quali scompariranno, ma quanta disuguaglianza sarà prodotta dall’innovazione. Il gap sarà tra chi potrà accedere a nuove opportunità di lavoro high tech con elevate remunerazioni e prospettive di carriera e chi – la maggioranza – sarà costretto a ripiegare su lavori a bassa qualifica. Si chiama polarizzazione e sta avvenendo in tutto il mondo.

Il vero punto non è quali lavori scompariranno, ma quanta disuguaglianza sarà prodotta dall’innovazione

Tecnicamente come avviene questa polarizzazione?
Con la riduzione dei posti di lavoro basati su attività routinarie che possono essere automatizzate. Gli esperti ci dicono che l’intelligenza creativa e l’intelligenza sociale rimarranno appannaggio degli umani, anche se le ricerche sull’intelligenza artificiale si stanno concentrando anche sulle capacità empatiche degli algoritmi. In ogni caso sarà necessario sia adattare i curricula scolastici e universitari per dare possibilità ai giovani di apprendere le competenze più utili oggi sul mercato del lavoro, sia offrire corsi di riqualificazione ai lavoratori che sono già sul mercato. La vera sfida è la formazione permanente.

La formazione che ha però dei costi enormi…
Serviranno non solo ingenti risorse per finanziare la formazione professionale, ma occorrerà anche cambiarne la governance: oggi in tutti i Paesi OCSE i lavoratori più qualificati hanno una probabilità tre volte superiore di ricevere formazione rispetto ai lavoratori meno qualificati. In altre parole, la formazione professionale oggi tende ad aumentare le disuguaglianze invece di ridurle.

L’Italia è un paradosso. Mentre negli altri Paesi diminuiscono i posti di lavoro di livello intermedio in favore di quelli ad alta qualificazione, da noi succede il contrario

Il quadro italiano sembra però in controtendenza rispetto a quello generale. Come mai?
L’Italia è un paradosso. Il nostro Paese cresceva poco anche prima della crisi. E questo perché all’aumentare dei posti di lavoro non aumentava la produttività. Il motivo è che la polarizzazione italiana è concentrata sulle basse qualifiche piuttosto che sulle alte. Mentre negli altri Paesi diminuiscono i posti di lavoro di livello intermedio in favore di quelli ad alta qualificazione, in Italia succede il contrario. Fenomeno che si spiega con l’arretratezza italiana in tema di innovazione.

Se la formazione è una parte importante della ricetta per governare il cambiamento del lavoro in Italia che altro serve?
L’Italia ha messo in campo alcune riforme importanti. In particolare quattro: il Jobs act, la Buona Scuola, l’Industria 4.0 e l’Agenda digitale. Le prime due però hanno bisogno di tanto tempo per dare degli effetti. Le seconde due invece sono un primo passo fondamentale. Dotano il Paese di infrastrutture tecnologiche fondamentali per permettere l’avanzamento dell’innovazione. In Italia infatti abbiamo diverse eccellenze che però non fanno rete. Un sistema di riforme che ha già in ogni caso dato dei risultati: la creazione di 800mila posti di lavoro, la diminuzione della disoccupazione all’11%, che è ancora un dato troppo alto ma comunque migliore di prima. Rimane una disoccupazione giovanile altissima e una lunga strada da fare. È importante però che si analizzi la situazione nel suo complesso. Analizzare una riforma o un dispositivo alla volta singolarmente non serve. Bisogna osservarli nel loro insieme sperando in un quadro chiaro sul medio periodo.

È fondamentale che insieme alle riforme l’Italia riesca ad esprimere una percezione di stabilità politica ed economica.

Cosa intende?
È fondamentale che insieme alle riforme l’Italia riesca ad esprimere una percezione di stabilità politica ed economica. Per farlo ci deve essere chiarezza sulla direzione che l’Italia ha deciso di intraprendere. Solo così sarà attrattiva per gli investimenti, sia interni che esterni. L’instabilità, che sia politica o economica, genera diffidenza.

Anche sulla formazione abbiamo delle difficoltà…
L’Italia ha un tasso di laureati del 20%, estremamente più basso della media Ocse. Un dato che bisogna assolutamente migliorare.

Come si spiega questa percentuale?
È dovuta a due fattori diversi ma legati. In primo luogo in Italia il titolo di studio non garantisce l’accesso al lavoro. E in molti casi non garantisce neanche una maggiore probabilità. A questo si aggiunge che la laurea non corrisponde ad una remunerazione migliore. Oggi in Italia investire in una laurea è rischioso e raramente premiante.

Di |2024-07-15T10:04:33+01:00Luglio 7th, 2017|futuro del lavoro, Innovazione, MF|0 Commenti