Andrea Garnero, Ocse: “Occhio alla tecnofobia: perché la paura dell’innovazione può farci peggio dell’innovazione stessa”
Andrea Garnero è un giovane economista del dipartimento Lavoro e affari sociali dell’Ocse. Ed è uno dei pochi della sua categoria a mettere sul tavolo i propri dubbi, anziché le proprie certezze, riguardo alla domanda da un milione di dollari su cui si fonda ogni opinione riguardo alla rivoluzione digitale: fa guadagnare o perdere posti di lavoro? C’è chi, come l’economista premio Nobel Daron Acemoglu racconta che ogni singolo robot toglierà lavoro a sei persone ogni mille. E chi invece, come il direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia Roberto Cingolani, sostiene che i robot salveranno l’umanità, grazie a «esoscheletri che aiuteranno una persona a camminare, o a sistemi di controllo remoto che aiuteranno a compiere operazioni chirurgiche senza aprire la cassa toracica».
«Le stime Ocse al riguardo parlano del 9% dei posti di lavoro a rischio. E comunque anche queste non considerano i nuovi lavori che si creeranno. Ogni stima può essere discussa. Il punto è capire di cosa abbiamo bisogno per far fronte al cambiamento, non seminare panico». Non si schermisce di fronte alla sfida, tuttavia. Né nega l’esistenza del problema: «Certo, la tecnologia è un problema serio, intendiamoci. Ma non meno dell’effetto-globalizzazione, che oggi è fatta di pezzi di produzioni che girano il mondo, quella che definiamo catena globale del valore. O ancora, dell’effetto-invecchiamento della popolazione, che pone un tema di welfare e previdenza non secondario».
Per quanto possa essere paradossale, il principale problema è un altro: che la paura per l’innovazione crei più guai dell’innovazione stessa. In altre parole: se ci fossilizziamo nel voler bloccare le nuove tecnologie, rifiutando di apprenderne i contenuti, rischiamo di rimanere troppo indietro, finendo presto o tardi per esserne travolti in misura ancora maggiore: «Più della quantità dei posti di lavoro mi preoccuperei della velocità del cambiamento – spiega -. Se avviene in una generazione, siamo in grado di metabolizzarlo piuttosto facilmente. Se avviene in pochi anni, invece, è molto più complicato, soprattutto per i lavoratori più anziani, quelli meno avvezzi al cambiamento».
Se ci fossilizziamo nel voler bloccare le nuove tecnologie, rischiamo di rimanere troppo indietro, finendo per esserne travolti.
Per l’Italia, questo è un problema molto serio. La Global Shapers Annual Survey del World Economic Forum è una ricerca molto accurata, forse la più accurata nel cogliere le istanze, i sogni, gli ideali e i valori della generazione dei nativi del mondo digitale e della globalizzazione, dice infatti che per la generazione dei giovani digitali e globali non siamo per nulla attrattivi. Quando a quei giovani digitali e globali viene chiesto a quale Paese pensino, come destinazione in cui realizzare il loro futuro, parlano di Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Australia, Svizzera, Francia, Spagna, Svezia, Olanda, giusto per citare i primi dieci.
Il motivo? Ce ne sono tanti, dall’ipertrofia della burocrazia a una mentalità troppo tradizionalista in ambito sociale. Ma è soprattutto il primo che ci deve spaventare, perché è quello di cui siamo meno consapevoli: i giovani globali e digitali sono ottimisti riguardo alla tecnologia, mentre in Italia, si parla solo di tasse sui robot che ci rubano il lavoro, laddove otto giovani su dieci pensano invece che la tecnologia finirà per crearne di nuovi. A questo punto, dirigersi altrove. E lasciare che il Paese della tecnofobia si avviti su se stesso, prigioniero delle sue paure.