Umanesimo e impresa: binomio vincente?
Oggi la tecnologia non fa – quasi – in tempo a entrare in azienda che è già stata superata da ricerche che ne migliorano le prestazioni, la facilità di applicazione e il risparmio energetico. Inoltre l’emergenza pandemica e la crisi climatica sono generatori di problematiche da risolvere, ma fungono anche da acceleratori per l’introduzione di un modo nuovo di guardare al futuro della cultura delle aziende. Il contesto in cui sono immerse le imprese italiane continua a cambiare, a dimostrarsi difficilmente decifrabile. Quali sono, per un capo, un CEO o un amministratore di una organizzazione complessa, gli strumenti per vivere meglio in questi nuovi ecosistemi, per essere più innovativi, e dunque più competitivi? Esiste una via verso un “umanesimo” d’impresa che sia anche digitale?
Al cuore della risposta a queste domande va dritto Marco De Masi, giornalista, italianista e manager del Boston Consulting Group, nel suo libro “Il mestiere dell’uomo. Perché la cultura umanistica fa bene all’impresa italiana” pubblicato da Luiss University Press.
Cosa intende quando parla, e scrive, di umanesimo?
La premessa doverosa è che la risposta dipende dall’ambito in cui scegliamo di muoverci. “Il mestiere dell’uomo” prova a cogliere le prospettive letteraria e d’impresa dell’umanesimo odierno, cercando di trasmettere un’idea semplice: alcune persone, aziende e istituzioni, più o meno consapevolmente, fanno propri certi tratti della cultura umanistica, trasformandoli in elementi di competitività.
Con il termine umanesimo, in storia della letteratura, ci si riferisce di solito a un periodo che va dalla seconda metà del XIV secolo alla metà del XV, che si sviluppa attorno all’arco di tempo che Benedetto Croce chiamava “il secolo senza poesia”, e che va dalla morte di Giovanni Boccaccio alla pubblicazione delle Stanze di Angelo Poliziano.
Quali sono i motivi per cui lei oggi parla di umanesimo in azienda?
Non è un caso che, proprio in questi anni, il termine umanesimo sia impiegato sempre più spesso per raccontare l’atteggiamento delle aziende che decidono, in tanti e differenti modi, di occuparsi in maniera continua dell’ascolto delle necessità di tutti i portatori d’interesse. La mia impressione è che si cominci a parlare di umanesimo in azienda intendendo la necessità di articolare una più puntuale riflessione sulle conseguenze che le attività di un’organizzazione articolata e complessa come un’azienda possono avere sulle persone, dentro e fuori l’organizzazione stessa.
È possibile conciliare e declinare oggi, in azienda, lo spirito della cultura umanista del XV secolo?
In questo piccolo percorso non mi sono imbattuto in imprenditori-filologi, in cacciatori di manoscritti come Poggio Bracciolini. Però ho avuto l’occasione di parlare con imprenditori e manager che hanno riflettuto a fondo sulla cultura della propria impresa, sulla differenza tra profitto e valore, su come arricchire la cultura della propria organizzazione, e su come tutto questo incida nella vita quotidiana dei lavoratori, rendendola qualitativamente migliore e anche più resiliente. In altre parole, ho incontrato delle persone che di mestiere “fanno impresa” che, nel loro lavoro e nel costruire il presente e il futuro dell’azienda, di fatto, applicano le lezioni degli umanisti.
“L’impresa non è dell’imprenditore. Ne è custode e responsabile per le ricadute economiche e sociali che essa ha sul territorio” mi ha detto – cito andando a memoria – Massimo Mercati, Amministratore Delegato di Aboca, che con la sua società sta investendo moltissimo e con ottimi risultati proprio in questa direzione. Il brand di Aboca – nato a Sansepolcro in Toscana oltre quarant’anni fa – oggi con Mercanti si è posto l’obiettivo di ricercare nella complessità della natura le soluzioni per la cura dell’essere umano, realizzando prodotti esclusivamente naturali e biodegradabili. Con l’aggiunta della – più contemporanea – sensibilità per l’ambiente, questo è un esempio di umanesimo portato in azienda.
Forse è “la” domanda a cui fanno capo tutte le altre: le imprese devono stare sul mercato, l’umanesimo può renderle anche più competitive?
Mi permetta di usare le parole di Martin Reeves, presidente del BCG Henderson Institute: «Trent’anni fa, essere filosofo ed economista allo stesso tempo era probabilmente umanamente interessante, ma forse inefficiente in termini di business. Il mondo è andato verso una maggiore specializzazione, e questo ha assolutamente senso quando si ha a che fare con problemi particolarmente complessi e quando la loro segmentazione è chiara e stabile. Ma quando abbiamo a che fare con instabilità o incertezza, quando cioè abbiamo bisogno di imparare – non solo imparare nuove cose, ma imparare nuovi modi di imparare nuove cose – allora la comprensione di differenti visioni del mondo diventa cruciale». Diciamo che alla competitività fa bene la disponibilità di saperi diversi all’interno della stessa organizzazione, a partire da quello umanistico che si applica anche alle questione tecniche.
In che modo le aziende di settori diversi fanno propri i tratti della cultura umanistica, trasformandoli in elementi di competitività?
Nel libro cerco di raccontare dieci di questi modi possibili che hanno come tratto comune il modo in cui fanno convivere e collaborare saperi diversi all’interno della stessa organizzazione. Questa è la lezione che ho imparato ieri stesso nelle interviste fatte a chi dirige le aziende che ho visitato, aiuta l’organizzazione a essere più resiliente e più pronta a comprendere le trasformazioni del contesto in cui è immersa.
Ad esempio, Bonfiglioli è un’azienda bolognese leader mondiale nella produzione di motoriduttori, riduttori epicicloidali e inverter per i settori dell’automazione industriale, dei macchinari mobili e dell’energia rinnovabile. La sua presidente, Sonia Bonfiglioli, ritiene che l’idea che la formazione si debba concentrare in un solo periodo della vita sia uno stereotipo aziendale da superare: secondo lei chi lavora nella sua azienda, a tutti i livelli, ha un bisogno personale e professionale di formarsi in modo continuo. In un mondo che si trasforma continuamente dal punto di vista tecnologico, lei è convinta serva una base di competenze, non necessariamente volte allo sviluppo dei prodotti dell’azienda, ma per far capire ai suoi lavoratori in che direzione stia andando il settore. Per questo garantisce – proprio con la stessa fiducia del periodo umanista – periodi di formazione continua per dipendenti.
Per un umanesimo in azienda, quindi, serve investire sulla formazione dei lavoratori. Quanto conta in questo senso il rapporto con le istituzioni?
Moltissimo. E sono gli esempi che riporto a dimostrare perché conti molto. E perché lo spirito umanista di alcune aziende ha ricadute sul territorio, non solo sui dipendenti delle imprese. Un caso davvero speciale è quello che racconto insieme ad Andrea Pontremoli, che è l’Amministratore Delegato di Dallara Automobili dal 2007 e ha un passato in tutt’altro ambito, esperienza che ha generato una contaminazione nello spirito umanista. Infatti Pontremoli ha lavorato in IBM dal 1980, prima come semplice tecnico di manutenzione. Poi la sua carriera professionale lo porta ad essere nominato, nel 2004, Presidente e Amministratore Delegato di IBM Italia. È lì che lascia tutto per entrare in Dallara e, grazie alla sua visione umanista e di formazione continua generata dal suo precedente impiego, dal 2017 diventa presidente di Motorvehicle University of Emilia Romagna (MUNER), un’associazione promossa dalla Regione Emilia-Romagna, ma creata grazie ad una connessione sinergica tra le università e le aziende dell’emiliana “motor valley italiana”. Pontremoli ha messo insieme oltre a Dallara, Ferrari, Ducati, Maserati con gli atenei della zona per formare i talenti giovani da “conquistarsi” in un secondo momento sul piano dell’offerta di lavoro. Questa operazione ha permesso anche di rigenerare paesi e borghi di un territorio interno come quello dell’Emilia.