Se il Welfare diventa una start up
«Un settore in espansione». Non ha lasciato spazio a fraintendimenti Giorgio Alleva, presidente dell’Istat, presentando l’aggiornamento del censimento delle organizzazioni non profit. Del resto sono gli stessi numeri a parlare chiaro. Le istituzioni non profit attive al 31 dicembre 2015 contano sull’apporto di 5.528.760 volontari e 788.126 lavoratori dipendenti. Il numero dei dipendenti in particolare è cresciuto del 15,8% fra questa rilevazione (dati 2015) e la precedente (dati 2011), mentre quello delle istituzioni con dipendenti è salito del 32,2%. In termini assoluti gli enti che dispongono di lavoratori dipendenti (in titto 788mila) sono 55.196, pari al 16,4% delle istituzioni attive in Italia (oltre 336mila a fronte delle 301mila del 2011: + 11,6%). [legacy-picture caption=”” image=”ed4bdb65-9d62-4e7a-a0a4-d1d335dc9ab1″ align=””]
In media, l’organico degli enti non profit è composto da 16 volontari e 2 dipendenti. Nei settori della Sanità e dello Sviluppo economico e coesione sociale si riscontra, in media, una presenza molto più elevata di dipendenti pari rispettivamente a 15 e 14 unità. A livello territoriale, le aree che presentano una maggiore concentrazione di dipendenti nelle istituzioni non profit registrano anche una maggiore intensità di risorse umane impiegate nel settore rispetto alla popolazione residente. Nel Nord-Est e nel Centro si rilevano i rapporti più elevati di volontari (pari rispettivamente a 1.221 e 1.050 persone per 10 mila abitanti) mentre in termini di dipendenti sono il Nord-Ovest e il Nord-Est a presentare il rapporto più elevato (pari rispettivamente a 169 e 156 addetti ogni 10 mila abitanti). Rispetto al 2011, si rileva per le regioni del Sud una crescita particolarmente sostenuta in termini sia di dipendenti (+36,1%) sia di volontari (+31,4%).
«Siamo al cospetto di un comparto fortemente dinamico, cresciuto in maniera significativa anche nel corso della crisi», aggiunge Alleva.
[legacy-picture caption=”” image=”a1eac02f-dfea-486e-a990-6d7405171295″ align=””]«Dal punto di vista occupazione il Terzo settore nei cinque anni considerati ha fatto registrare una crescita del 2,8% l’anno, mantenendo di fatto il trend degli anni precedenti», osserva Paolo Venturi, direttore di Aiccon (Associazione Italiana per la promozione della Cultura della Cooperazione e del Nonprofit), uno dei think tank di riferimento del settore promosso dall’Università di Bologna e dall’Alleanza delle Cooperative Italiane. E la crisi? «Non è corretto dire che non abbia influito, ma lo ha fatto in un quadro a saldo positivo di posti di lavoro», risponde Venturi.
I nuovi innovatori si muovono verso un interesse generale pur senza avere un esplicito commitment dalla Pubblica Amministrazione
In effetti circa il 25% delle organizzazioni non profit attive oggi sono nate dopo il 2011. Questo significa che all’interno di un perimetro in allargamento c’è stato un piccolo terremoto. «Quella prima degli anni ’90 era la stagione delle finalità religiose, poi fra il 1990 e il 2000 è stata l’era del socio-sanitario, quindi fra il 2000 e il 2010 a trainare il settore sono i temi legati all’impegno solidaristico e della promozione dei diritti. Oggi invece sta emergendo una nuova generazione di imprenditori orientati a promuovere l’impatto sociale non solo nella filiera della salute e del socio-sanitario, ma anche in quella culturale, turistica, agricola e della rigenerazione urbana. Il giacimento di asset (spesso non valorizzati) disponibili nel territorio e la spinta crescente dei bisogni insoddisfatti (non solo di cura, ma di luoghi e servizi comunitari) costituiscono quella domanda a cui una nuova generazione di imprese sta rispondendo attraverso innovazioni sociali ad alto contenuto tecnologico; innovazioni che si muovono verso un interesse generale pur senza avere un esplicito commitment dalla Pubblica Amministrazione (con cui si relazionano solo marginalmente)».
«Il territorio diventa così “locus”», continua Venturi, «per sperimentare innovazioni di rigenerazione di spazi, di valorizzazione di filiere, di inclusione sociale, di soluzioni ambientali dove la socialità è nell’essere intenzionalmente orientati all’impatto sociale». Il welfare inteso in questa eccezione larga può quindi diventate il terreno di «un nuovo modo di fare impresa immettendo sul mercato servizi esperienziali, comunitari e ad alto contenuto sociale», conclude Venturi.
Foto: un momento di lavoro alla Polveriera, hub della cooperazione sociale di Reggio Emilia