È in Palestina il primo Social Business Centre del Medio Oriente
Italia, Bangladesh, Palestina: una triangolazione che ha dato vita al primo Yunus Social Business Centre di tutto il Medio Oriente. Il centro, che ha trovato casa all’Università di Betlemme, è stato lanciato a dicembre 2018 e si pone come obiettivo quello di fare da incubatore e acceleratore di startup nell’ambito del social business. In poche parole, la versione avanzata della cooperazione. A rendere possibile l’attivazione di questo progetto ci hanno pensato gli operatori del Vis (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo), lo Yunus Center dell’Università di Firenze e lo stesso professore e Nobel per la Pace Muhammad Yunus. Il tutto all’interno di uno dei contesti socio-politici più difficili del Pianeta: la Palestina occupata da Israele dove la disoccupazione, nel 2017, ha toccato il 27,7% e le differenze di genere impediscono un pieno accesso delle donne al mondo del lavoro (solo il 19% risulta occupato contro il 71% degli uomini).
Ma di cosa parliamo quando parliamo di social business? “Sostanzialmente si tratta di un’impresa che nasce con l’obiettivo di rispondere a un bisogno o a un problema sociale o ambientale, missione a cui destina tutti i profitti che vengono generati dal proprio operato”, spiega Enrico Testi, responsabile dello Yunus Centre di Firenze. Alla base di questo modello c’è il messaggio e le best practice messe in campo dallo stesso professor Yunus, figura di riferimento a livello globale per la sua campagna di lotta alla povertà attraverso lo strumento del microcredito che ha permesso di valorizzare attività generanti un guadagno tramite piccoli prestiti che non richiedono garanzie collaterali.
«A livello generale – continua Testi – la premessa del social business è che l’agire economico, l’impresa possano essere utilizzate anche a favore della società, andando contro l’approccio tradizionale delle business school per cui la meta è sempre quella della massimizzazione del profitto”. Teorie e approcci che hanno messo in collgamento Firenze e Betlemme: “Il tutto è nato attraverso l’attività di consulenza tecnica che lo Yunus Centre fornisce sia in Italia che all’estero. In Palestina seguivamo dei progetti grazie ai quali siamo entrati in contatto con il Vis. Abbiamo fatto rete e grazie al benestare del professor Yunus e la disponibiltà dell’Università di Betlemme siamo riusciti a fare rete e dare il primo impulso a questa iniziativa”, conclude Testi, che fa anche parte del comitato scientifico che indirizza e supervisiona il lavoro del centro.
Vogliamo prima di tutto far capire che il punto di partenza per risolvere i problemi delle comunità è un’imprenditorialità sostenibile con un occhio alle fasce più deboli della popolazione
A livello più pratico, tocca agli operatori del Vis trasformare in realtà i vari progetti. A coordinarli c’è Luigi Bisceglia, una vita spesa nella cooperazione che, dopo lungo girovagare, lo ha portato in Palestina: “Sono arrivato qui nel 2011 per coordinare un master in cooperazione allo sviluppo in collaborazione con l’Università di Pavia. Un tema che mi ha portato ad approfondire il rapporto con il settore privato. Nel tempo, infatti, mi ero reso conto di due cose: la prima è che se vogliamo promuovere veramente i diritti dobbiamo trovare il modo per soddisfare i bisogni; la seconda è che il settore privato ha un grande potenziale nello sviluppo di progetti economici locali”. Su questa linea, quindi, si colloca il coinvolgimento nella creazione dello Yunus Centre.
Ma quali sono, concretamente, i progetti e le attività supportate? “Quello su cui ci stiamo concentrando è la preparazione del terreno affinché si possano incubare startup con impatto sociale. Per farlo, ci siamo resi conto che serve un’azione di awarness verso giovani, stakeholder e istituzioni relativamente al social business. Insomma, vogliamo prima di tutto far capire che il punto di partenza per risolvere i problemi delle comunità è un’imprenditorialità sostenibile con un occhio alle fasce più deboli della popolazione. A questo si aggiunge un’attività a livello legislativo, affinché l’Autorità nazionale palestinese riconosca e faciliti questo tipo di imprese. Infine, vorremo fare formazione sul management necessario a stimolare i futuri partecipanti alla call to action rivolta alle startup”. Da qui, entro un anno, l’obiettivo è quello di lanciare delle vere e proprie social business competition capaci di attirare i migliori attori locali, magari già attivi nell’area (e per cui è in corso un vero e proprio processo di mappatura).
D’altronde, la popolazione palestinese ha dimostrato nel corso degli ultimi 70 anni di essere estremamente resiliente, una caratteristica essenziale per far fronte e superare le difficoltà materiali che, in altri luoghi, metterebbero in difficoltà qualsiasi imprenditore. Tuttavia, nonostante ciò, mancano ancora risposte adeguate alla disoccupazione giovanile, così come manca la manodopera specializzata nei settori delle costruzioni, dell’industria e delle energie rinnovabili. Mancanze che sono dovute, in parte, anche a uno scollamento fra attività scolastica ed esigenze del tessuto socio-economico nonché alla difficoltà materiale di far arrivare quanto serve in questa parte del mondo: “Rimesse e aiuti umanitari drogano l’economia palestinese – afferma Bisceglia – per questo dobbiamo dare un’alternativa, soprattutto alle categorie vulnerabili, giovani e meno giovani. Parlando di donne, per esempio, ci siamo resi conto che ci sono donne che solo a 40-45 anni, dopo essersi sposate giovani e aver curato i figli, sono finalmente pronte a entrare nel mondo del lavoro”. Un’opportunità che non arriva mai troppo tardi.